sabato 12 febbraio 2011

Di quel celeste


Quel mare era una gigantografia di parole. Se trovi il senso dimmelo, passami la torcia nelle sabbie prosciugate degli occhi, nelle ali di un assassino di passaggio al molo. Ti metti al freddo e sei al verde. Prova a darmi le tue braccia, le onde sono piccole bucce e che sottigliezza essere la tua ruota di scorta. Mordimi. Quel mare era la fogna dei desideri, gingilli in quel tubo azzurro del collettore di scarico e servi il tuo piatto a un gattopardo di passaggio e lo guardi tra le tamerici, solo un’ombra della mezzoretta passata insieme a lisciarci il pelo. E’ impossibile essere pronti. E mi chiedevi perchè fossi così un passero solitario, arricciavo il naso nella dimensione blu. Quel qualcosa di sacro non ero io. Si parlava di priorità ed era così complicato, c’era l’elastico della tuta a scoprirmi di dietro se flettevo in avanti la contorsione integrale delle tue riflessioni. Se una donna ti dice cosa posso fare per te lasciala armoniosamente in pasto ai pescecani. Perchè ovvio l’overture sarebbe “saltami addosso e basta e tieni le parole per dopo se ne abbiamo voglia” e il primo atto “spogliati subito e lascia le mutandine a sporcarsi di sabbia” e poi il secondo atto “abbandoniamoci così integralmente alla pazzia senza neanche guardarci e il soffio del vento ad asciugarci la bocca” poi potrebbe calare il sipario di salicornie e ti sentiresti meglio. Il resto è imballaggio e puoi accenderti una sigaretta nell’azzurro svogliato delle mie convulsioni in monokini. Oltre la semplicità non c’è nulla. Quel mare era rivestirsi insieme alla svelta di quel celeste, ancora caldi e purissimi arrampicandoci alle ragnatele segrete della luna.

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