sabato 29 gennaio 2011

Zio Peppino


Zio dove vivono gli australopitechi? zio dove sorge il sole? zio poi lo prendiamo il panino col dentro di prosciutto? lo zio Peppino mi sorrideva e mi teneva per mano senza rispondere perchè forse non lo sapeva fare o forse perchè quel sorriso valeva di più. Era il giorno più bello dell’anno per me, mentre salivamo a La Quercia alla fiera del bestiame e la strada sterrata confluiva in quella che per me era la prateria e il west. Avevo i pantaloni corti e le scarpe lucidate che in quella fittissima nube di terra non era la toletta più adatta, ma non mi ero vestito io, mi avevano vestito a casa. Usciva il laccio d’argento dell’orologio da tasca dello zio e lo stringevo a me impaurito. Così inconsapevolmente passeggiavamo su quella maremma ingabbiata negli steccati e i corral che ho adulto ricercato come la consolazione del vivere in un tramestio di zoccoli e corna a uncini. Dove segui le linee di livello delle vacche e ti ritrovi all’abbeveratoio e ti rinnovi Narciso tra le libellule e le notonette, dove i tritoni lasciano un pacchettino d’amore sugli steli sommersi di un ranuncolo d’acqua. Bevevo alle fontanelle con lo zio Peppino per mano, con le sue unghie sporche dal piombo tipografico e quello era il mio nido così forte e dolce come la carezza di una madre. Lo zio Peppino che prestò una equivalenza di duemila euro ad una zingara di passaggio in bottega, in cambio della minuscola profezia che ancora mi salva, sapendo fosse il suo regalo più gratuito ma la dolce signora un anno dopo glie li riportò tutti indietro e inginocchiandosi nelle sue povere vesti li tese allo zio con le parole di un ringraziamento e una preghiera incomprensibili. Quando aprivano la casa a chi aveva fame e la guerra gli aveva buttato per terra la tipografia e non c’era da mangiare neanche per loro, ma lo dividevano lui, mia nonna, mia mamma piccola e chi bussava a casa. Toglievano i calcinacci e c’era una sedia. E gli occhi, mentre un buttero su uno steccato con un paramento di cuoio sulle cosce e un commerciante in grisaglia facevano gesti misteriosamente commerciali per la vendita di tre cavallini, gli occhi erano per me che ero in cielo rapito da quegli odori e dalla bellezza di qualcosa che era già ancestrale e istintivo e mio. Ora a Campo Graziano ci sono dadini di villette a schiera semi-eleganti Quando attraverso adesso in quel punto la strada, rivive un mondo scomparso nella speleologia antropologica, quel mondo che ha senso nella semplice mano che stringe la mano e c’era una bambina vestita bene come me che non mi aveva mai guardato ed io si, boccoli biondi e un fermaglio d’argento dietro ai capelli, portata da chissà chi ma ora sola a mangiare le caramelle dei ricchi. Avevamo sei anni e come un bambino e una bambina il pensiero d’amore fu quell’altalena dove ci spinse forte la danza fino a toccare i rami di un ciliegio in fiore. Lo zio Peppino mi prese per andare a mangiare dove un pergolato di viti si poggiava alla casa ed avevamo portato una pagnotta e ci davano il companatico. Per me il prosciutto, poi un cacio che non so e un mezzolitro di bianco. Come sempre tirò fuori la sua lama e fece le parti e il coltello nel panciotto di nuovo. Intorno alle torri quei rondoni selvaggi che puoi vedere solo se ti giri verso il cielo e la vite e lasci il tralcio attaccato alla casa e ti sporgi in avanti nell’abisso di peperino e alzi la testa verso il torrione scuro. Così che i giocatori di bocce mi pigliavano per stupido tracannando le bestemmie e le risate di troppa fatica. Mi guardò lo zio seduto sulla panca nel giorno della fiera del bestiame e tirò fuori dal portamonete le 500 lire d’argento tutte per me. Brillavano tre navicelle al sole e se le giravi ti accecavi nel riflesso bassorilievo del busto di una figura femminile con il collo alla modì. Squame di roccia lavica, lastricare la piazza e si scendeva di nuovo dalle bestie impolverate per quel saluto lento come una ecloga bucolica e poi in tre tiravano come pazzi una vacca per la coda per farla montare sul predellino del carretto e poi dentro e scartava e sfuggiva sempre un cavallo e c’era sempre chi ci si parava davanti sventolando uno straccio e poi smontavano i pali e le stecche quando l’orizzonte è rosso e tu sei il capo dei cheyenne e la pianura è nelle tue mani e una sella hai davanti che scrive il tuo cursus honorum. Andavi via di traverso ed eri un looser, ma mi bastò sempre quella mano nella mano e quel sorriso di una malinconia imbevuta d’amore a calmare le lacrime che scendevano mentre un gruppo di fagiani avevano il collo macchiato di sangue reclinato sul balcone e ne provai il dolore denso raggrumarsi, mentre si beveva a pizzo alla fontana del Crocefisso, mentre dove c’era la strada più lunga la facevo, salendo sulle scale e sui profferli di quell’infanzia che ha una virgola e una lama, che ha il suo termine in quelle parole dette e sempre scordate in un amore che non ho disuso.

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