lunedì 10 gennaio 2011

Luci d'incompiutezza


La prima volta, era l’appuntamento atteso e così fu dato un luogo di ritrovo riconoscibile: al parcheggio della Bella Venere al lago di Vico. La mia bella venere la avevo inseguita per mesi ed era stato un inseguimento coraggioso e da fermo. Lei seduta su uno sgabello sbiego dell’edicola periferica e io il cliente all’impiedi, uno di quei tanti stupidotti fottuti che l’avranno corteggiata acquistando giornali inutili ad argomento automobili o pesca sportiva o casarredamistaminkia. Cazzate insomma. Io preso oasis ed airone cosa accidenti d’altro potevo volere? Qualche volta il manifesto per apparire più rivoltoso di ciò che il fisico ammetteva, altre il corsera per apparire un rivoluzionario pacatamente nicodemista e distaccato. La repubblica mai perché se c’era e c’è un’antropologia che considerai sempre seriamente cerebrolesa era quella borghesietta cattocomunista, troppo, troppo volgarmente italiana. Ci fu e seguì quello che elegantemente potremmo chiamare un gran colpo di culo e più scurrilmente la “propizia”, ed era febbraio con quell’andirivieni di sapori e quella rinascita della carne seminascosta e impaziente. Dove può fare il nido una cinciarella, quella scelse il semaforo, tre metri dall’edicola e portava andirivieni di sofficità per imbottire, materassaia, il riparo per le uova. Così Simona usciva dalla piccola dacia colorata e le mani potevano sfiorare le mani non solo in quel lampeggiante del resto di poche lire dorate. Così potevo osservarla e che era bella anche di dietro. Mostrava sorrisi di gingilli alla cinciarellina ed io sapevo che erano per me. Occhi febbrili sulla sua bocca e potevo anche andare da lei senza la tortura degli acquisti artificiali e in più c’era un passo avanti oggettivo nell’ottica della tresca, lucciole colorate i capelli. Al lago osservammo gli svassi notturni, pigliammo un ghiacciolo e ci buttammo su una panchina. Si giocava in economia. Cominciammo a toccarci, in fondo, perché non avevamo un argomento di discussione, ci toccammo in poche parole. Era più che bellissima, era bona, era un gran bona, come una caramella. Sfilarono le stelle riflesse sulle barche, bagnavano la prua di una voglia che trovava senso e corpo in quegli occhi spettinati nell’incantesimo carnale. Cosa mi tocchi mi disse, per oggi accontentati così e lo disse con la voce turbatissima di chi non si accontenta per niente e nemmeno io. In quei ritagli di ragione rischiosa ringraziai la cinciarella di cupido, poi quel tutto, quel nulla che per fortuna ci fa bestie di solo sudore. Che fortuna essere liberi e noi e su quel prato freddo del lungolago, sfilarono brillantemente ciclisti, sfilarono le antonomasie dell’amore Brigitte, Sophia e Jane. Era un cosmo a portata di mano in quella eclisse profumata della panchina di verde smalto e ancora e ancora giù. Salutandoci seppi solo dire “bella”. La seconda volta o almeno quello che avrebbe dovuto esserlo e lo fu, giocò il destino la carta del paradosso. Appuntamento lunare dietro lo stabile della questura, in un parcheggio da amanti di straforo e traditori di lungodegenza in un luogo meravigliosamente squallido. Altissimi lampioni gialli citavano piani-sequenza di inseguimenti alla vallanzasca o alla francis turatello, ma un po’ come quei colombi che fanno il nido attaccati al loro assassino e lui sa risparmiarli, banchettavano lungo la discesa al tunnel, un gruppo di tossici che se vai li trovi ancora ubriachi ad urinare sulla ferrovia, oppure per terra nel terrapieno laterale alla galleria, uomini messi in ordine e di traverso come aiuole. Convenendo all’incontro Simona scese dalla renault per salire sulla citroen, la cincetta ora sognata e al semaforo continuava a portare i bocconi mielosi ai pulcini, mentre declinavo un mantra liquido: “tu sei divina, tu sei me ed io sono te, sei nel mio villaggio tra la mia gente”. Così estrasse lentamente dal reggiseno un pezzo di hashish grande come un sapone e fu il suo dono d’amore per me, che avevo aspettative più da terraferma e a frugare. “ma da dove lo hai tirato fuori?” ridendo e sbottonare tutta la camicetta in un attimo e appoggiai la pipa sul volante e lei bruciò il tappetino con la sigaretta in quello che consideravamo commendevole e ingenuo come fare l’amore usando canapa dietro il fortino della questura laterale, come noi i colombi provinciali sulla falesia dell’aquila, come noi e la cinciarella che mi imbocca del suo miele sacro e provvisorio. L’antitesi di penelope ed ulisse, rossi i volti e disfatti, ci leccavamo le labbra. Ciò che cercavamo era reclinabile e tagliato. Sfilarono i camioncini ape del pane, sfilarono due seminaristi con la barbetta sputata, sfilò la misericordia degli stracci in quel piccolo sudario di laerte, che mai ebbe una forma diversa e terminò perché il suo fine era in quella ritrovata e stanca incompiutezza.

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