venerdì 14 gennaio 2011

La ferrovia


La ferrovia sceglie quale è la strada intransitabile, come un pesce siluro sa predarti e portare via tutto e in quello sferragliare di cingoli e puleggia d’attrito volano via gli istanti infantili. Scendevi alla stazione sbagliata e tiravi giù un caffè e le Marlboro e risalivi con mezza chiappa nella scorrevole e ti mettevi in terza classe dove beccheggiano tamerici e ailanti, dove c’è uno zainetto per due ragazzi e lo spazio è poco. Si attraversava quel sentiero che porta ai cipressi e violavi la vita nel battere d’ali del finestrino e la tabella no smoking. In carrozza gridava e via nell’eden mediterraneo in quella specie di circumnavigazione planetaria, curvando orbite nell’instabilità delle cariche elettriche e sobbalzavi e ti tenevi alla maniglia del sedile davanti mentre la destinazione era ovunque. Bastava salutare col fazzoletto e far salire le valige di cartone nella nenia delle cicale di monte romano, quando ti sballottavi centrifuga per vedere i nibbi sul culmine di quel monte scuro. Federica fumava al cesso e dal finestrino l’ostro a ogni curva le ributtava addosso la cenere bianchiccia. Silvia l’aspettava alla stazione di capranichetta e guardava treni in andate e ritorni. Uscì dallo stanzone bigliettaio e si mise sul ciglio di peperino. Due gatti, uno nero e uno roscio rovistavano in un cartoccio, un barbone stava in un cartoccio di carta e aveva due bottiglie vuote e usciva solo un cappello di lana, un travet vestito bene con una valigetta executive parlava con una bionda bassetta, si vedeva solo il dorso della luna mentre albeggia e le cornacchie scendono nelle traversine a spolpare i cadaveri. Il viaggio e la casa, il binario e l’approdo, una pista polistil di suo fratello Marco da piccolo. Petali colorati come l’universo che aveva intravisto la sera prima nelle pillole che non aveva rifiutato e l’orologio si fermò ai flash degli amori mandati al macero, a quelli abbandonati per pigrizia, a quelli vissuti per mera sopravvivenza e svaniti come fa un tramonto lasciando vivere i beccamorti. Mentre l’attesa gorgogliava i minuti stava quasi per scoppiare una rissa tra i tifosi del capranichetta e i fascisti e Silvia pensò che tutto l’ ideologico era divenuto meticciato e che lei preferiva il prima quando c’era un briciolo di fede in qualcosa di fittizio e solido, rideva così e per caso perché le botte non le prendeva lei e questi bambinetti litigiosi avevano trovato il senso in una scazzottata e in un lancio di pietrisco in maiuscolo. Poi intervenne il capostazione Luigi che alzava un cinquepiotte da solo e la sola epifania sedò gli animi e le birrette. Luigi era tre ante d’armadio ed era buono come un cane affamato ma era grosso brutto, era l’uomo deterrente. Federica leggeva due pagine di Fontamara ma rimise le pagine nella cinghia e si perse di nuovo nei pensieri del binario. Così come il cosmo è in espansione, così come finisce la carta igienica nei treni, così come quei calzettoni da bambina le stringevano troppo, così come gli occhi sono lo specchio della sua fotocamera a tracolla, così come assunte tutte queste premesse il binario non obbliga nessuna derivata logica e per questo esiste il treno pensò per avere delle domande senza sentenza. Quando la sera scende nel giorno, iniziano le civette e i beccamorti e menano le danze del ballo liceale che disegna un perimetro quotidiano di quell’insolvenza dei sentimenti che chiamiamo tempo. Quando la traccia degli aerei riga il cielo di bianchiccio, quando si sente il puzzo degli ailanti e del carbone, quando i gabbiani crollano sulla fogna a cielo aperto di una periferia qualunque, quando intravedi mentre fugge via il binario morto di scarano, allora mancano cinque minuti per capranichetta. Silvia frugò lo zaino per una mentina e si mise un po’ di lucidalabbra, Federica infilava la cinghia degli stivali e il semaforo degli arrivi fece verde e il megafono abbaiò le frasi di protocollo: “è in arrivo sul binario due il lentissimo di urbevecchia”. Il sole filtrava i platani del viale stazione e il lucidalabbra di Silvia sulla bocca di Fede, un bacio caldissimo, le mani chiuse nelle mani, in quella prospettiva angolosa era tutto lucente ed era tutto innocente e la mattina si sbriciolava, senza le sovrastrutture degli alambiccanti, non è una licenza è la “vita nostra” e si mescolavano gli occhi mentre i rintocchi automatici di una chiesetta, un alcolizzato di traverso su un ducati 125 e i bimbetti di quinta e di schiamazzo, dolcissimamente le benedicevano.

Nessun commento:

Posta un commento