venerdì 7 gennaio 2011

Il mare dei frammenti


Sai ancora ricercare e quando te lo dico ti annoi, quella piccola chiazza di petrolio nella palude dei giunchi innocenti. Te lo giuro ed è un giuramento che inganna, un regalo che mi hai dato sorridendo dalle mimose. E dal terzo piano le vedo ora da sopra. Ma è stato meglio così, invece di quell’esilio meraviglioso che mi proponevi, non voglio il brillare delle tue cartaregalo Così ragionava Marina e il fuoco della prospettiva della strada sbadigliava, la inghiottiva nel rannicchiare dei tigli. Avevi i pantaloni troppo corti. Dalla parte opposta procedere indaffarato di Piero, con la borsa da medico e il laccetto inclinato degli occhiali. Quando hai sentito il sangue delle corsie, in quella specie di ansia uggiosa dell’abitudine, il paesaggio è quello che separa le tue suole dal letto degli ammalati, quel vivere del “metti la fisiologica cosa aspetti perdio, ha 90 di azotemia”. La routine. E in quel momento gli arrivò un barattolo di coca e lo scalciò in un gesto furioso e fragilissimo. Ripensava alle docce sulla spiaggia su quel quadratino di cemento, che dopo il bagno seguiva quell’insaponatura liscia che preludeva all’osservazione di soppiatto di quella tedesca che non si seppe il nome e che pare lo facesse sottilmente apposta. I cavalli di schiuma e i dopocena così, coi pantaloni bianchi stirati con la riga che ficcavano irrimediabilmente nella catena del motorino a disegnare un pezzetto di sindone d’olio scuro di petrolio. Marina uscì con la pizza al taglio e quella spiaggia era diventata selvatica, disegnavamo una storia parallela nell’incoscenza.
Così quando sei perduto e sei tra Porto Clementino e la Torraccia può venirti alla mente di scavare una trincea e buttarti dentro, oppure seppellirci il cocomero e andare al flipper a perdere tempo calciando in tilt la zona pelvica dei wow e dei bonus e un pirata e una scena western la trama di quella folle biglia di ferro. Puoi ascoltare uno stronzo che suona benissimo la chitarra, puoi isolarti in quelle poltroncine di plastica e cosa pensi lo filtra una cannuccia. Passò una ambulanza con uno affogato, passò la parola sorda amore. C’erano le tamerici piegate in quel respiro affannoso della salsedine, c’erano le boe a largo e le cabine per sciogliere gli abiti e si era in quel centro città nebbioso che avvolgeva le smanie di Marina e le incertezze di Piero ora quasi a contatto e opposti sul marciapiede di Torino. E furono quei gabbiani di corallo e fu la luna sul mare rettilineo dei Murazzi dove se ti volgi hai una lama in faccia ma se vai dritto ti aspetta una bevuta di invisibile che invischiarono la panchina di sconosciuti amanti e se vai a quella dopo di fronte alla friggitoria ne senti ancora l’odore di mare e senti la fine di una risata in fuga, vedi quelle mani intrecciate, irrisolte e quei corpi dondolare e le teste vicine quasi a sfiorarsi e gli elicrisi e il pepe dei muri di quella scogliera a strapiombo su baci rampicanti. E sei felice per lo sfregarsi ardente delle dita di Piero sulla bocca di Marina e ciò che chiamerebbero lascivia tu sai che abita in quel paradiso di bocche perfette a mangiucchiarsi e la linea che ci separa non è visibile, vedi solo il tramonto e quel riverbero verde e orizzontale.

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