venerdì 31 dicembre 2010

La leggenda Von Verzellinik


Patrizio Von Verzellinik era l’ultimo figlio di Danila Papatia, prediletta del boss della ndrina calabrese Sandro Papatia “Squarciagomma” e di quale paese e di Smielon Von Verzellinik della nobile stirpe di imbalsamatori dei Von Verzellinik originari di una maldestra periferia viennese e si era agli inizi degli anni 50 quando le quaglie arrivavano a miliardi libecciando le spiagge tirreniche del golfo di Terracchi. Danila e Smielon ebbero 6 figli ma uno fece il bancario, uno andò alle poste e tutti lavori così così che Smielon aveva i coccoloni tutte le mattine e smadonnava come un turcomanno. Lui, lo Smielon era stato il bracconiere più inseguito di Vienna, poi aveva trafficato in armi con gli slavi, aveva aperto una imbalsamatoria poi per imborghesirsi, che insomma era restato un cane della polvere, una scimmia dondolante sulla schiena della nobiltà fanculita, imparentata di rinquarto addirittura coi Von Plankenstern. Danila non aveva natali semplificati, era figlia di terzo letto di Squarciagomma che soppresse le prime due mogli col suo marchio di fabbrica: le incollanava con lo pneumatico di un trattore, spargeva alcool etilico e appiccicava fuoco. Non che fosse misogino, ne sbudellò 41 allo stesso metodo e 32 furono i maschi. E poi la figliolanza li aveva lasciati da un pò, chi per terre di Polonia, chi per un villaggio senza origini sul Baltico e un altro perfino a Parigi, l’odiatissima. Era una donnina bassa Danila, ma non ne ebbe mai cruccio perchè parimenti piacevole al sesso opposto e non possiamo assolutamente dire il perchè. Smielon voleva un figlio, uno con i coglioni, un imbalsamatore. che quando nacque Patrizio non ci credeva più e continuò a non crederci fino ai tredici anni del piccolo Von Verzellinik. Poi questo bimbetto all’età di quattordici o quindici anni iniziò a trafficare con la pomata arsenicale, la “santa pomatina” la chiamava Smielon. Patrizio non si limitò a guardare la cassetta dell’arsenico polverizzato, le canfore e il sapone scistoso di marsiglia, ma iniziò a versare e mescolare in una tinozza di metallo l’intruglio gattopardesco: con una verga di frassino rivoltava calce viva, sapone, polveri di arsenico e potassio carbonato. Cristo, era una furia, era Von Karajan che dirigeva la nona, scarmigliato e preda della magia degli occhi, un felino sfrenato e luciferino, Patrizietto. Smielon urlò a Danila: “vieni, vieni, finalmente, finalmente ce l’abbiamo!”.
La carne in decomposizione di una natrice seppe celare la gioia che trasalì Smielon e Danila era alle stelle, sembrava quasi alta in quella sostanziale putrescenza di comuni intenti e le mammelle ciclopiche sbatterono sulla teca degli uccelli preparati. Flonf. E fu il principiare di mesi pigmalioni nei quali Smielon sembrò ritrovare quella verve assassina del ragazzo e dell’uomo che fu, prima della seconda guerra e quasi perse la balbuzie e quasi ricrebbero i capelli e le basette. Muscoli, ho un figlio, figlio. Smielon, ripeteva ossessivamente due volte le frasi, per esercizio di sicumera o per paura di non essere capito e anche se non tartagliava ripeteva, ormai era un riflesso condizionato, era la simmetria del mastino di Pavlov declinata ai Von Verzellinik. Tanto che Danila aveva smesso di ascoltarlo da più di vent’anni, le bastava fare si con la capoccia e a Smielon andava di grasso. Seppero a Schwarzenbach, la voce girò, anzi la fecero girare le due nuore di Smielon, pagate debitamente per l’ufficio. Mogli rispettivamente di Pieter e Incensotto Von Verzellinik, campavano le famiglie con una rispettosissima commenda curiale che dava la licenza alla villeggiatura termale e a cinque elementi di servitù per ceppo.
Sul tavolo di Patrizio c’erano due colombacci e una mangusta spagnola da lavorare. L’aria della primavera stonava con le canfore, le rondini della pietà mescolavano il cielo di colori e il sangue dei derelitti apparecchiati. Cominciava col tagliente su un colombaccio e la direzione segue la linea dallo sterno alla coda e basta una pressione leggera. Si comincia così e Patrizietto sapeva fare, il piccolo dei Von Verzellinik agiva da provetto e ora sull’incisione rivoltava il tagliente dalla parte opposta foggiata a spatola e iniziava lo spellamento vero e proprio. A ogni taglio seguiva il cospargimento della cenere e del terriccio sul coltello, come a spegnere il fuoco della vita, quel martirio riservato a Maria e il pentimento umano nel mercoledì delle ceneri: "Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere". “Arrivato all’ala tagliala all’altezza della spalla, all’altezza della spalla”, Smielon suggeriva per fuffa che Patrizio era già l’orgoglio di papà e del casato, fece un gesto assertivo per toglierselo di torno e aveva già in mano il bisturi a lama retta e l’incisione fu senza difetti. L’altro colombaccio non fu imbalsamato, si provò iniettando acido fenico nella cavità anale, ma fu tutto fasullo e Smielon era così felice che lo portò nel bosco a seppellire mentre passava una carovana di zingari con le carrozze e lo sparviere scivolò giù dal crinale di roveri e fu il baleno di un astro e fu il proiettile più veloce, la via delle stelle giù verso l’orfanotrofio. Patrizietto poi diede forma con cotone, stoppa, fili di ferro, lacci a gola di lupo a quella fusoliera che imbottita e ritta sulle piccole zampe del columbide li guardava.
Ormai mezza stalla della schiatta dei Von Verzellinik era adibita all’ufficio di Patrizio che ne aveva fatto macelleria e studio di imbalsamazione e una targa d’ottone fuori la ceralacca dimostrativa. Metà scuderia del maniero può essere utile dirlo era grande e alta come una media abbazia francese. Era un museo e un negozio e diviso per sezioni: l’ala a destra era per i pesci tropicali e gli squali del mediterraneo, la parete in fondo che confinava coi fienili conteneva uccelli e c’erano nitticore, pappagalli, francolini e succiacapre, c’erano falchi e civette, c’erano allocchi e tordi e in tutto 2329 preparazioni ornitiche varie. Sulla destra la parte inferiore l’attrezzeria e sopra l’ala dei mammiferi alpini e dei capibara una delle passione di Patrizietto che da bimbo per ninna nanna aveva orecchiato solo la cantilena dell’anaconda e del roditore e qui glie ne dava merito e ossequio in guisa di perfetta vita eterna. Erano passati quattro anni e un pezzo dalla prima volta e ora il cuccioletto dei Von Verzellinik si apprestava allo sbocciare dei vent’anni. Danila e lo Smielon per una volta trovarono un pensiero di concordia: Patrizietto si doveva ammogliare. Non sembrava entusiasta, ma non disse mai di no, il piccolo delfino dinastico adorava i suoi genitori e non avrebbe mai fatto loro una sgarberia e uno sgarro. Preferì in quei giorni viennesi del 55 fare il solito e trafficare con pomate e unguenti, ragionare sulle tecniche e fare raffinatissima protofilosofia tassidermica. In quei giorni arrivarono delle telefonate per lui e la mamma gli portava l’apparecchio sorridendo senza passare per la servitù, ragionava tra se e se: “ecco il pargolo di famiglia parla con una ragazza di intenzioni amorose ed avremo presto il frutto di questa genìa giovanile, sia benedetta la Madonna pellegrina della montagna scura, la giovane Maria che protegge il bosco delle mille Sile”. Sfilarono due settimane intensissime in quel gelidissimo febbraio e la prima vide Patrizietto ricevere grandi casse di necessaire, si apprestava ancora invisibile la primavera e i lavori sarebbero stati di nuovo serrati. Smielon era gonfio di una ammirazione sincera per la creatura consacrata, lo veneravano gli occhi. Ora toccava a lui portargli la cornetta e ne era felice. Arrivavano damigiane di carbonato decaidrato di sodio e flaconi smisurati di olio di cedro e vino di palma in compagnia di vecchi libri peruviani ed egizi, arrivavano cofani di cotone e natron. Arrivavano delle grandi casse di pioppo che Patrizietto preferiva schiavardare da solo. Passavano le oche in quei cieli di piombo.
Il primo marzo giunse svelto e Sabine, la servetta delle stanze, aprì la camera da letto dei Von Verzellinik e mai quegli occhietti verdi da martora attendevano ciò che poi fu l’evidenza eclatante. Poggiate sulle piastre ottagonali del pavimento a disegnare losanghe nel fuoco della parabola, due casse di cedro dell’Atlante e sotto le bende balsamiche intravide la barba essiccata dello Smielon e nell’altro verso in opposta simmetria di capocce, lo sguardo vitreo di Danila, composta come una madonnina di Correggio. Urlò come una poiana e passò il telefono al marmocchio Patrizio che non faceva una piega, era uno sgobbone soddisfatto. Dall’altra parte del filo c’era una voce grossa e compunta, pur se il dialetto greve si mescolava alla lingua e smascherava il natale criminoso. Sandro Papatia Squarciagomme con modi da mastino celebrava Patrizietto: “ora che abbiamo fatto mummia mpradiscita di quei due sucaminchia menzognari è tutto tuo, quell’uliveto d’acquazzina che fa scinduta sullo Jonio d’i 400 ettari è tuo Patriziè, e la villa che ha fatto Sandro Squarciagomme tuo è per te, Danila e quello con la parrucca du babbasuni strunzi sugno, anzi strunzi furuno” e accompagnò un ghigno stupido bevendo cognac. “Hai visto Patrizio che seguendo le mie imbasciate ora hai metà Calabbria sotto il tuo controllo e cu cugnu sanguinario dei Firomalli? Cazzu, ti sei sistemato niputi mio, tu si culutu”. Nulla passò sul volto del piccolo Von Verzellinik, solo la gratitudine e un volo di oche granaiole a fargli ombra sugli occhi. Quello che si doveva compiere era fatto senza salti mortali e con la sicura pace di tutti.

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