sabato 20 novembre 2010

Vincenzo misantropia


Era stanco di tutti quei buongiorno e buonasera. Il suo gatto si chiamava Sussurro e lui Vincenzo, Vincenzo misantropia. Si consigliava con le sue matite colorate prima di ogni decisione irrevocabile, il mondo fanculo lui era Vincenzo, lo sfregiato all’orecchio.
Sapeva consacrare il vino, rincorreva i barattoli nelle ore senza luce, quando la città dorme e canta il gallo tre volte e raglia l’asino. Vincenzo misantropia era lento di passo ma di addome veloce. Era un uomo di adipe aggressivo, snello di pensiero nei giorni dispari e la campagna esalta.
Teneva il passo alle allodole, superava i cavalli era un uomo di una certa età ma chi cazzo sa quale.
I giorni pari sentiva il peso di un dispiacere antico perchè Vincenzo non aveva mai visto il mare.
Aveva avuto una donna Luigia misoginia, quel sogno leggero ripassato su un giradischi senza puntina, quando stride il solco e ti lascia il gorgheggio di una mariacallas di passaggio, di un johnnyrotten in falsetto. La storia finì male per una questione di uova cotte troppo o di una alla coque troppo lessa, lui non lo ricordava, era Vincenzo misantropia, lo svagato, lo sfregiato all’orecchio.
Mentre i corvi bordeggiavano il grano di un cielo cobalto, mentre l’aratro invocava le stagioni, mentre il pastore era chino sui capezzoli delle pecorelle, Vincenzo fu felice e la stampa sul volto.
“Vorrei delle matite e una gomma pane, e anche una colla per incollare”. Il tabacchino fece occhio alla moglie, la perfidia di un sorriso, Vincenzo misantropia parlava stretto come avesse ghiaia nei denti, come biascicasse bisbigliosa arenaria tra le guancette.
Chiese l’ora a un passante ma aveva l’orologio al polso, chiese l’estrema unzione e respirava, chiese alla vita un sorriso mentre grondava lacrime.
I tigli odorano di orzata, le rose odorano di rosa e Vincenzo misantropia odora di medicine e libertà.
Il poeta ha altro da fare: il mondo rallenta lui accelera, il mondo rutta e lui fermo nella palude delle giunchiglie dorate. Vincenzo misantropia era uno scrittore perverso, solo l’interno della confezione dei toscanelli erano sacra pergamena, una volta comprò i sigari solo per la scatola e se lo ricordano tutti. La piazza fu sorpresa da un uomo di una certa età che buttava la manifattura senese nell’ immondizia e poi su una panchina riverniciata male steso con le mani nella testa e la testa nella matita colorata a grafitare il cartoncino ecrù.
L’uomo di talento non sa di possederlo. Un fuoco fatuo, una fiammella ogni tanto vede ma poi la scansa come la peste, preso in quell’indifferenza superiore, intrisa di evanescenze.
Come il cavallo disarciona il fante, come la luna fa galante, come la mattina è una sferzata di libeccio, come la primavera ti secca il cuore.
Vincenzo misantropia prima chiese poi decise di non farlo. Non aveva rimorsi, non aveva coscienza, Vincenzo lo sfregiato era un turbine di piccole infiorescenze trasportate dal vento, pollini pulviscolari sulle città straniere
“Luigi ma non ti ricordi la volta che Vincenzo uscì nudo sul balcone e fece vedere il pisello alle suore?”. Luigi chinò il capo in segno assertivo perchè era l’unico amico di Vincenzo lo sfregiato, chinò la testa svogliatamente due volte come per dire si lo ricordo, lo ricordo e non rompermi più i coglioni. Gigi viveva solo con capra solitudine e con gallina allegrezza in quella che chiamarla casa era offendere lamiere polistirolo ed eternit. Sulla sponda della Gaillarde coltivava un orto misero e ore passarono e notti flipparono e gatti ulularono tutto il tempo in cui Vincenzo misantropia e Luigi sedettero e sdraiarono insieme per giorni senza monosillabi udibili del tutto superflui. Sciacquettavano la vita in una matassa di alghe nere.
Successe una mattina che Vincenzo salì su una corriera e poi su un treno e poi su un cocchio di cavalli come in una trance lisergica. Non vide nulla del paesaggio, era assorto in preghiera, una preghiera derviscia “in move” e sputava mozziconi di sigaretta e la strada vide il corbezzolo poi il ginepro e poi il lentisco. Curvò il carretto verso la salina e le reti odoravano di cocomeri e meloni. Vincenzo misantropia era arrivato al mare. Quell’utopia selvaggia dove annaspi sul dorso e ti ritrovi ranocchia. Gigli di mare a offrire la pietà, tronchi spiaggiati e ruvidi come una alcova sognata per la vita. Tolse i legacci, lanciò gli scarponi nella sabbia. Fecero un timidissimo tonfo.
Chissà se i gabbiani compresero l’importanza di Vincenzo sull’arenile. Volavano rovesciati come l’ultimo giro di un’altalena. Si scambiavano una busta di plastica, dorso a dorso, becco a becco. “Abbracciali tutti Vincenzo”, si diceva Vincenzo lo sfregiato e l’azzardo divenne certo e incredibile.
Un uomo di una certa età dissolse in quell’asprissimo odore e le ali di gentilissimo gabbiano strinse in quell’abbraccio obbligatorio. Vincenzo misantropia non lo vide più mai nessuno, solo gli stormi delle stelle d’estate possono ora carezzarlo e ne sono i gelosissimi custodi dello sguardo.

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