domenica 21 novembre 2010

Coltivazioni senza scopi pratici


Nella vita non ho mai lavorato, perché lavorare con gli uccelli è il mio “bene” e ne godo. Quindi quando si produce reddito e si cuba con ciò che faresti pagando, stiamo sul precipizio del “sui generis”. I miei lavori di oggi sono contare le ali ed attribuire loro il senso. Questo come diavolo fai a chiamarlo lavoro, quando c’è una moltitudine svogliata che ne cerca uno qualunque e non lo trova, quando c’è una massa immane che dà la vita per sbarcare la luna, coi polmoni annichiliti dalla silicosi, con l’angheria di un padrone stronzo di merda, quando c’è un oceano che l’ha trovato e soffre e crepa. Il mio è un lavoro “a culo”, voluto, cercato, inseguito, bramato, meritato, tutto quello che si vuole ma “a culo” resta. Due soli anni lavorai per senso comune, quello di andare per sporcarsi le mani, ma a ripensarci c’era anche un po’ di snob francese, che tanto in tasca a 18 anni i soldi servono a poco e a 19 non servono a nulla. Ma era un sudicio lavoro agricolo, la raccolta del tabacco, le camice sporche dello zio che adoperava in tipografia e che non le aveva buttate col piombo e con l’inchiostro assassino io dovetti strapparle e buttarle nel pattume perché la nicotina si attacca alla flanella, la invade e non la lavi con l’acido muriatico. Somigliava a un maneggio insomma.
E le mattine insieme a due sciagurati neo diplomatici arrivava un trattore ed un pianale con una quindicina di braccianti provenienza la frazione di una frazione di Viterbo, che non è, per dire, la frazione di una megalopoli, lo si sa. Braccianti esclusivamente donne, su cui il padroncino aveva lo ius primae noctis e tutte le altre notti che avrebbe voluto dar seguito in baldanzosissime scopate.
La campagna di luglio, dove la maremma incide sul vulcano, dove il grano penetra nel calcare sulfureo di un sistema termale underground, una maremma anch’essa “sui generis”.
Il padrone del padroncino si vedeva raramente, era un fascista storico e uno stronzo d’altura. Se respiravi ti apostrofava “qui si lavora non si sta a prendere aria”, ma temendolo tutti come un dittatore crudele lo si derideva e basta, rispetto al padroncino contava poco, così come se vuoi un lavoro in regione non vai dall’assessore, basta che ti fai la segretaria amministrativa ed è meglio.
Il padroncino era alto un cazzo e un barattolo ed era sempre abbronzato, ma di quella abbronzatura stonata come uno in cravatta e stivali di gomma, come un cantante pop oppure come un bacio dato per convenienza. Si chiamava Pino e sostanzialmente faceva i lavori pesanti. Scaricava le braccianti e a sera le ricaricava sul trattore il resto del tempo fumava. Le donne andavano dai 14 ai 70 senza nessun razzismo anagrafico e non ci prendevano sul serio, me e il mio amico nicotinico, eravamo presi per signori, presi a benvolere e presi per il culo, ma sul serio mai, checcazo di classe lavoratrice eravamo? Avevano ragione, come darle una inticchia di tortomarcio. E lavoravamo sodo anche noi puledri quando avevi raccolto una “bracciata” depositavi sul cumulo e via un’altra bracciata fino a che le reni urlavano in greco, ma non dovevi farci caso. Era l’incarico. E dietro al terrapieno di scarico e carico c’era il cesso: un campetto d’erbette meno urticanti del resto e si faceva così: le donne alzavano la gonna, abbassavano le mutande e si andava di cataboliti, poi si rialzavano la gonna esponendo il sesso al vento caldo di un archetipo fescennino. Ovviamente davanti a noi che impazzivamo di curiosità per quella pastorale beethoveniana di mutande agricole. Per loro erano i bisogni e cosa conta il pudore, c’era da pisciare e si faceva così. Ricordo la tipologia di tutte le mutande ma ci sarebbe da dire troppo, esula dai compiti della ricerca in corso.
Pino non le guardava, noi si. Pino la sapeva lunga, teneva il tutolo della pannocchia in bocca e la sigaretta di lato, blu jeans e una maglietta vinta al luna Park, marca puzza. Era uno sveglio insomma. Per pranzo si aprivano le buste e le gavette e uscivano gli spaghetti e il sugo, poi un culo di pagnotta con la mortadella, mezz’ora e poi di nuovo coi fiori del tabacco, quello che restava dopo la defogliazione fatta a mano, il puntale di un abete natalizio striminzito. Il padrone del padroncino era Ghino e una volta infrociò la macchina in una cunetta di acqua e zolfo e tutta la schiavitù la estrasse a mano, Pino no, dirigeva le operazioni. Quel giorno Ghino fu umanissimo. Pausa pranzo: 45 minuti.
I calabroni spopolavano nella vigna che perimetrava la latrina condominiale e un falco dalle bande chiare passava ogni giorno a controllarci. Bellissime ali del ricordo, sordidi bottini di sorci campagnoli. Pino aveva una Golf e qualche volta la portava, spuntata da chissà dove, forse lasciata la notte prima in un incontro amoroso con la più terrificante della frazione della frazione della frazione, con polinomi al numeratore e al denominatore un accidenti di qualche espressione algebrica accazzo.
Quella volta che Maria partorì un bimbo ed ebbe le doglie giù al tabacchificio e arrivò l’ambulanza, quella volta che Rossella lasciò il marito per uno più giovane, quella volta che la Franca non aveva il reggipetto e tutte a toccargliele.
La mattina si sparse la voce, subito come un vociare delle pie donne nella processione di sant’Oreste. Pino si era schiantato a un albero sulla Cassia ed erano restate lamiere e interiora al margine destro della carreggiata. Quelle cromature buzzurre e i cerchioni cafoni di un BMW a centinaia di metri. Nessuno mise un fiore alla curva dell’eccidio, forse era giusto così, tanta villanìa e sciaguratezza condensate insieme in un uomo solo se ne contemplano ogni occhietto della cometa di Halley.
E le braccianti ruvide amanti delle ortiche solitarie cominciarono ad essere trasportate da un ford transit con un uomo più, anziano più gentile. Il tempo passa e le santissime braccianti non dissero mai uno spruzzo di parola su Pino, il Pino funzionale, l’uomo da scaricare a bastonate ci aveva pensato da solo a togliersi dalle palle. Cancellato come un’oca da farci il brodo, Pino il bellimbusto, Pino l’apolide decerebrato. Lo perdoni il cielo.
E il tempo passa e le stagioni portano le coccinelle e le cimici sulle carote selvatiche. Il tempo passa sulle camice buttate nella spazza, il tempo passa su un angolo di maremma “sui generis” che le ingiurie del tempo hanno lasciato luogo di incanto e Ghino crepato di vecchiaia ha lasciato un terreno incolto e increspato dalla gioia, dove i falchi dalle bande chiare passano ancora e trasale primavera e il vento caldo di estate poggia sulle pervinche e le borraggini un sapore di sapone scivoloso.

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