L’innocente realtà come uno
spettro. Una volta ci fu un ballo e l’aia si dimenava di galline e galletti
alla fisarmonica la didascalia di due sconfitte. P. ed L., consumatrici di
speranze, tossiche come la vita offre, bimba che dalla vita soffre. La realtà
come uno specchio, era questo che si poteva pensare mentre versavi il rossetto
nel lavandino. Così L. ti veniva in soccorso con le medicine. L. stai peggio
tu, just a perfect day, lo avevi avuto un moroso un bastardo che urlava e
picchiava come un maniscalco sul ferro perissodattilo. P. lo aveva sognato
quell’interesse per generi maschili, così come si sogna piluccandone i petali
amari e all’ombra. Per L. l’infanzia chiuse un percorso che si stabilì era
tutto quanto potesse concedersi. Però P. ebbe un lavoro normale da un dentista
e prendeva le telefonate, segnava sull’agenda del banco di Pinerolo, metteva i
giornali sul tavoletto di vetro, perfetti, vecchi, in ordine. C’è un lato che
unisce e P. ed L. erano sorelle, vissute attaccate, che la graffiosità dei muri
staccherà perchè il finale lo sanno anche gli stronzi, trovate impiccate
insieme nel pollaio della cascina, vicine nella mutualità finale, sgabelli
vicini senza sfiorarsi. Dov’è dio chi lo sa, dove passa la faina di notte chi
lo sa. L. si vestì con una gonna di tulle e una camiciola, odorava di sapone,
P. prese uno scialle, il satellite della mamma per coprirla. Suonavano una
mazurka, le braccia tese a fare da pergola in quella quadriglia festiva, una
coppia passava dentro, i ragazzini toccavano il culo alle femmine, alla fine
del tunnel, il duo diveniva l’ultima coppia di vertebre di quell’imbuto di
sorrisi e grida. Vent’anni fa e il vino passato fino ai cinquanta di adesso lo
intitoliamo agli specialisti psicofarmaci. E la simbiosi del bene conduce una
depressione a raddoppiarsi, fuori dal mondo delle persone. L. si rivolse a P.
le susssurrò “l’amore ti sembrerà grottesco io non lo so, non so l’estasi che
sia, tu hai preso tante botte ciccina ma almeno lo hai visto”. L’innocente realtà come uno
spettro. Ballerine da ultima fila, ripassavano le strade velocemente, le
pastarelle domenica, salutando, scambiando quelle voci. All’edicola come sta
vostra madre? Peggiora e a noi resta questo vano da riempire, dalla macellaia
come vi va la vita? Bene, abbiamo fretta di tornare, scusaci il mondo Marcella.
P. apriva il cancello bianco, sulle colonne due lampioncini senza valore. La paura scandiva quell’ordine rigoroso dei tempi, la puntualità delle
vaccinazioni. La dedizione minimalista come un’offerta respinta al mittente,
superiormente e senza un perchè. Le pareti di casa odoravano di questo cucinato
di questo svuotamento di parole, di tutti i ricoveri. L. voleva farsi un
elettroshock ma P. si oppose chiudendola tre giorni in cascina, restandole
accanto a riempirla di carezze. Poi L. consolava P. e le parti si scambiavano
come sempre, come la faina entra e si fa i valium dal vano posteriore e come fa
nessuno lo sa. E così non c’era nessun biglietto sui comodini per dire invano.
Sole nella paglia riverberante dal basso, un ricordo di un giorno d’estate, due
collanine d’argento vicine.
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