lunedì 30 luglio 2012

Gli anfibi e il pastore in optical Swarowski


E ci fu un periodo anfibico, anzi urodelico. Più di dieci anni  fa, principiato con carlo, proseguito con roberto e diluito da solo fino ad esaurimento nervi. Era qualcosa di semidilettantesco, professionale negli intenti, dilettante nella assoluta mancanza di compenso pecuniario, semi nel metodo. La branca era faunistica e si procedeva cercando su tavolette igm la parola Font.le seguita da patronimici, aggettivi, nomi propri di cavalli. Poi si andava si segnava presenza assenza, stima di popolazione, frequenze della sex ratio. Si aggiungeva, la conoscenza pregressa dei luoghi maremmani ricalcati da impronte millenarie di ornitologie.
Le popolazioni urodeliche allo stato erano cospicuamente più fiorenti delle attuali, perchè ai tempi d’oggi un fontanile magmatico è naturalmente e giustamente più utilizzato per lavare e frizionare e shampare improbabili autovetture da cafoni cerchi in lega, oppure fungere da ricettacolo dei fusti  di anticrittogame, antiinsetto e anti e basta. Siamo una specie civilizzata e lungimirante, sanno tutti.
E così ci si perse nel buio dei boschi o nei riarsi fiotti della steppa. Fontanili da leptospirosi e si prese confidenza con quei misteri ambivalenti degli anfibi (= doppia vita) e doppia vita erano anche le bestioline dalla vita larvale incosciente e incongrua con quella adulta, come capitò a tanti di noi dispersi nella violenza dei quartieri. Elegantissime libellule passavano una gioventù da carogne predatrici, golose e insaziabili e le larvette del ditisco dei panzer da battaglia della seconda.
Così controllando le cloache dei tritoni, tra rumori di foglie di scoiattoli e rigogoli, oppure analizzando il pattern ventrale di Triturus vulgaris, non si dimenticava mai di essere ornitologi in primis e in occupazione di ripiego. Un secondo lavoro insomma, in assenza drammatica del primo.
Il binocolo era quindi una appendice del collo, la collanina di riconoscimento di noi bastardi. Il mio era un 12 X Swarovski, preso di seconda mano dal direttore megaparacosmico della riserva di non so cosa. Ne andavo abbastanza fiero, piccolo come un grumo di acini, fedele, leggero come un labrador svezzato di fresco. Il pensiero sfiorò le tortore che sfioravano le teste e i cardi dilaniavano i miei pantaloncini, le cosce, rigandole  di rosso. Quel fontanile era invisibile come una buona idea di quelle che per capirle serve frantumare il cranio con un machete o non averlo chiuso del tutto da prima. Tuttavia le mappe parlavano chiaro e dietro a quel forteto di querce e alberi di giuda doveva esserci una presa d’acqua. Desumemmo che il nome “albero di  giuda” poteva esser stato coniato solo da un non bestemmiatore che ogni metro esclamava “porco giuda” traversando le maledette foglie crude modificate a spina. La fronte, gli occhi, le braccia. La luce diminuiva passando dalla ferula all’equiseto, correlazione inversa alle aspettative di scovare urodeli, magari una salamandrina di fonte, magari no. Benedetto Lanza sia con noi. Amen. Giungemmo e il varco erano cumuli di sterco di maremmane e dolcissime fioriture di ranuncolo. La falda si era spostata e non confluiva più l’acqua nel tubo del fontano nascosto, o almeno solo parzialmente; si era creato un meraviglioso impaludamento tutto attorno alla cinta della fontana. Si cercò di calpestare il meno possibile, ma se la strada era tracciata dalle vacche doveva giungere, gioco forza, al fontanile. Poggiai lo swarovski sul muretto basso, prendemmo il retino con la cautela di un lupo d’acqua, si tuffavano le rane verdi Eusculenta complex ad ogni ombra, aprivano le sacche vocali, immergevano la testa nella lenticchia d’acqua, le zampe posteriori di fuori. Silenzio, rimbombi di colombacci, consonanti, tafani in numero variabile ma mai inferiore ai diecimila. Lo toccai il binocolo per un cuculo di passaggio tra i  rami degli aceri, lo deposi. Nella fontana solo rane verdi, di tritoni neanche la puzza, il setaccio ricavato dal passaverdura diceva: “notonette, oligocheti sparsi, alghe e alghe, larva di libellula, sanguisuga.” Eutrofonico fontanazzo e qualcuno di noi disse cazzo.
Tornammo e la sera mi  accorsi che lo swarovski era restato sul bordo del fontano, preda di quella voglia anfibia, servo della dimenticanza, figlio di un parzialissimo disamore. Alle sei di mattina ero lì, in quel recesso inabitato dagli uomini, pascolato dalle vacche, braccato dalle volpi e dalle faine e Lui non c’era più. Un gruppo di pecore pascolava attorno alle ferule scivolando sugli anemoni dei bordi. Lo Swaroski non c’era più.
Fu da quel giorno in poi ed adesso che per gusto dilettantesco immagino un pastore lacero di vestiario e con il bastone storto dagli anni, possa, sedersi all’ombra della roverella vicino alla sommità del pascolmento ovino respirando maremma all’ombra, conteggi le sue pecore una ad una con una catana di tolfa a tracolla, una boccia di vino e con un elegantissimo binocolino Optical Swarovski. Come in  una logica e divertente sequela ecologica, che rende disponibile la materia ad ogni cerchia, raffiorandomi il sorriso scuro ogni volta.

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