E ci fu un periodo anfibico, anzi
urodelico. Più di dieci anni fa,
principiato con carlo, proseguito con roberto e diluito da solo fino ad
esaurimento nervi. Era qualcosa di semidilettantesco, professionale negli
intenti, dilettante nella assoluta mancanza di compenso pecuniario, semi nel metodo.
La branca era faunistica e si procedeva cercando su tavolette igm la parola
Font.le seguita da patronimici, aggettivi, nomi propri di cavalli. Poi si
andava si segnava presenza assenza, stima di popolazione, frequenze della sex
ratio. Si aggiungeva, la conoscenza pregressa dei luoghi maremmani ricalcati da
impronte millenarie di ornitologie.
Le popolazioni urodeliche allo stato
erano cospicuamente più fiorenti delle attuali, perchè ai tempi d’oggi un
fontanile magmatico è naturalmente e giustamente più utilizzato per lavare e
frizionare e shampare improbabili autovetture da cafoni cerchi in lega, oppure
fungere da ricettacolo dei fusti di
anticrittogame, antiinsetto e anti e basta. Siamo una specie civilizzata e
lungimirante, sanno tutti.
E così ci si perse nel buio dei
boschi o nei riarsi fiotti della steppa. Fontanili da leptospirosi e si prese
confidenza con quei misteri ambivalenti degli anfibi (= doppia vita) e doppia
vita erano anche le bestioline dalla vita larvale incosciente e incongrua con
quella adulta, come capitò a tanti di noi dispersi nella violenza dei
quartieri. Elegantissime libellule passavano una gioventù da carogne
predatrici, golose e insaziabili e le larvette del ditisco dei panzer da
battaglia della seconda.
Così controllando le cloache dei
tritoni, tra rumori di foglie di scoiattoli e rigogoli, oppure analizzando il
pattern ventrale di Triturus vulgaris,
non si dimenticava mai di essere ornitologi in primis e in occupazione di
ripiego. Un secondo lavoro insomma, in assenza drammatica del primo.
Il binocolo era quindi una
appendice del collo, la collanina di riconoscimento di noi bastardi. Il mio era
un 12 X Swarovski, preso di seconda mano dal direttore megaparacosmico della
riserva di non so cosa. Ne andavo abbastanza fiero, piccolo come un grumo di
acini, fedele, leggero come un labrador svezzato di fresco. Il pensiero sfiorò
le tortore che sfioravano le teste e i cardi dilaniavano i miei pantaloncini,
le cosce, rigandole di rosso. Quel
fontanile era invisibile come una buona idea di quelle che per capirle serve
frantumare il cranio con un machete o non averlo chiuso del tutto da prima.
Tuttavia le mappe parlavano chiaro e dietro a quel forteto di querce e alberi
di giuda doveva esserci una presa d’acqua. Desumemmo che il nome “albero
di giuda” poteva esser stato coniato
solo da un non bestemmiatore che ogni metro esclamava “porco giuda” traversando
le maledette foglie crude modificate a spina. La fronte, gli occhi, le braccia.
La luce diminuiva passando dalla ferula all’equiseto, correlazione inversa alle
aspettative di scovare urodeli, magari una salamandrina di fonte, magari no.
Benedetto Lanza sia con noi. Amen. Giungemmo e il varco erano cumuli di sterco di
maremmane e dolcissime fioriture di ranuncolo. La falda si era spostata e non
confluiva più l’acqua nel tubo del fontano nascosto, o almeno solo parzialmente;
si era creato un meraviglioso impaludamento tutto attorno alla cinta della
fontana. Si cercò di calpestare il meno possibile, ma se la strada era
tracciata dalle vacche doveva giungere, gioco forza, al fontanile. Poggiai lo swarovski
sul muretto basso, prendemmo il retino con la cautela di un lupo d’acqua, si
tuffavano le rane verdi Eusculenta
complex ad ogni ombra, aprivano le sacche vocali, immergevano la testa
nella lenticchia d’acqua, le zampe posteriori di fuori. Silenzio, rimbombi di
colombacci, consonanti, tafani in numero variabile ma mai inferiore ai
diecimila. Lo toccai il binocolo per un cuculo di passaggio tra i rami degli aceri, lo deposi. Nella fontana
solo rane verdi, di tritoni neanche la puzza, il setaccio ricavato dal passaverdura
diceva: “notonette, oligocheti sparsi, alghe e alghe, larva di libellula,
sanguisuga.” Eutrofonico fontanazzo e qualcuno di noi disse cazzo.
Tornammo e la sera mi accorsi che lo swarovski era restato sul
bordo del fontano, preda di quella voglia anfibia, servo della dimenticanza,
figlio di un parzialissimo disamore. Alle sei di mattina ero lì, in quel
recesso inabitato dagli uomini, pascolato dalle vacche, braccato dalle volpi e
dalle faine e Lui non c’era più. Un gruppo di pecore pascolava attorno alle
ferule scivolando sugli anemoni dei bordi. Lo Swaroski non c’era più.
Fu da quel giorno in poi ed
adesso che per gusto dilettantesco immagino un pastore lacero di vestiario e
con il bastone storto dagli anni, possa, sedersi all’ombra della roverella
vicino alla sommità del pascolmento ovino respirando maremma all’ombra,
conteggi le sue pecore una ad una con una catana di tolfa a tracolla, una
boccia di vino e con un elegantissimo binocolino Optical Swarovski. Come
in una logica e divertente sequela
ecologica, che rende disponibile la materia ad ogni cerchia, raffiorandomi
il sorriso scuro ogni volta.
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