mercoledì 8 febbraio 2012

Mick



Era ossessionato da quella sua vorace abitudine. Oramai non era un tic, né un atterraggio di rondini sopra un aeroporto di fortuna, né una sciagura da consumare fredda. Mick sbatteva le palpebre in un viaggio continuo. Discepolo dell’illusione, bastardo, figlio di lurida, stella in fuga. Lo faceva in ossessione, fino a rendersi quasi cieco e il mondo stonava sputi di autocommiserazione. Abituati al velluto comodo, indigestioni di ovvietà, si tolse di mezzo dagli altri, un lampo blu di scintilla elettrica. Tredici gocce appena sveglio, otto prima di dormire. Così nessuna apparenza fu più la sua ascoltando una intervista di Ian Curtis decise. La via era piena di opuscoli, straziata da omuncoli, peggiorata da invitanti signorine. Si fermò ed era tutto incomprensibile e ritornando alla sua stanza ci fu una risata dal piano di sotto. Svuotò pasta e pomodoro in piattino di plastica e la mangiò per metà. Svuotò il frigo e gettò con cura tutto, preciso, chirurgico, sbatteva forte le palpebre. Sbiellava il punto centrale delle fughette di quattro maioliche di cucina e sbatteva, fino alla compulsione di un attacco di epilessia, ora sbavava, la saliva sulla barba, piena. Elettroshock. Gli abbandoni tornarono in fili di seta, bocche cucite, vite del cazzo ricostruite con sciatteria. Impiccatevi adulatori, si impicchi chi riceve. Senza spazio, senza via di fuga l’irrimediabile addio e la cancellazione erano il suo bene. Mick volteggiava in scia alle rondini e vide i tetti del sorriso, le strade dell’inquietudine, i suoi giochi di bambino crudelissimo e perfettamente felice, bolidi poi meteoriti di quelli che non erano già più pensieri. Decise la caduta nei corpi celesti polverizzando. Sbatteva le palpebre.

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