sabato 23 aprile 2011

La Resurrezione di Maria



Maria trascinava un sacchetto di plastica che la teneva piegata in avanti. La bellezza se mai la avesse conosciuta, se ne era andata da una quarantina di anni almeno. Le nuvole scure versavano sulla strada un senso di relativa angoscia, reclinata sulle balaustre fiorite dei terrazzini di fabbricati anni 70 alcuni rimessi a lucido da poco e altri con l’intonaco in vista e scortecciato in cristalli di calcio becchettati dagli uccelli. Un quartiere di gente perbene in cui almeno uno in famiglia aveva uno stipendiuccio e almeno un altro lavorava part-time in nero. Maria, la mignotta lo sapeva che nel vialone principale poteva al massimo ricevere un sorriso di offesa o un urlo che le faceva sanguinare il cuore, ma le botte e le pietre tirate addosso era probabile le scampasse. Le mancava poco ai 70 a Maria, fece per entrare in un bar, entrò nel pieno di una rissa e il vino dovette attendere. Si sentiva un accento campano di una voce roca litigare col garzone del bar, un ragazzetto magro con l’aria di campagna: “scappa scappa vattinne che qui finisce peggio di come è iniziata ed è iniziata di merda, ora qui inizia lo spettacolo satellitare entrano le puttane mie e tu non c’entri un cazzo, vattinne ora entrano quelle di lusso altro che i bunghi bunga, entrano già nude e con la frusta e la verga di frassino e ci sono i stronzi che si fanno picchiare e girano con la bamba non è roba per te strunzo, vattinne”.

Il vino dovette attendere e c’era ancora una lisca di pesce da consumare. Si sentiva l’odore di carciofi e di banane, quei camion che scaricavano vagonate di ortaggi ai magazzini generali. Come un dipinto di Segantini si allungava una processione sul viale e Maria era trenta metri davanti a Adolfo il suo adorato pappone che viveva di spicci e di espedienti, truffette che viste in questa prospettiva divisionista sfumavano nei platani e nella putrescenza delle carote. Quelle cataste di cassettine di pioppo, impilate e oramai lontane le davano il segno di una vita mescolata alla rinfusa e ricordò mentre giungevano alla fontanella del Crocefisso tutti i giacigli in cui aveva consumato il proprio corpo in abbandoni navigati alla svelta dietro smilzo compenso monetario. Dietro di loro, ad ogni ortica un sussulto sgambettava Fulmine, il cane della strettissima compagnia di giro. Magro come la filagna della vite, cane da ossi già spolpati e relitti. E quel tramonto azzurrino scioglieva il dolore del venerdì santo, incideva leggero su quella processione dolcissima. Non c’erano sacerdoti, non c’erano bardature curiali né gli inni sacri a cullare quelle vite sciolte nella timidezza del guardarsi di soppiatto e appena. Nessuno seppe puntualizzare, nessuno osò intromettere un pensiero in quella santità tribolata e perduta. Così come la notte scende e raffiorando in quel buio ritrova una luce distorta e superba, così come un sogno avvolge la vita e ne espande i perimetri immaginati solo per una volta si avvicinò il momento di chiudere le ciglia.

Prima di voltare quella strada di polvere per raggiungere la bettola di quella sera, Maria quasi sentì mancarsi e si resse al peperino del muro, traversandosi il cuore obliquamente e si videro le vertebre torcersi una ad una rumoreggiando come le assi di una carrozza. Adolfo si avvicinava lentissimo, mentre Maria ripeteva che “non era niente, che stava bene”. Così avviene in modo inatteso ma per natura, che Adolfo un pezzo ubriaco e un pezzo no le si avvicini al volto e alla bocca e così avviene ciò che non sappiamo dire, non lo sapremo mai, che le bocche si congiunsero morbide in un lentissimo bacio. La resurrezione di Maria avvera nella meraviglia di quel primo bacio ricevuto in indecifrabile silenzio, il primo bacio ricambiato e accolto nel grembo della sua leggerissima vita.

1 commento:

  1. Bello...
    Un trasporto più dolce, una figura ben delineata, una scrittura più rilassata!

    Scusa l'intrusione...

    Buon Anno!

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