venerdì 18 febbraio 2011

Susan


“Senti, ho mal di testa, sto male cazzo, lasciami perdere”. Nelle luci di Susan era la regola. Susan aveva sempre una gonna corta e poteva permettersela; quel giorno potavano gli olmi e la segatura copriva di zafferano il bitume a via marconi. Quel punto dove il bagliore infrange era il suo giaciglio, Susan era quel rettilineo dove San Giacinto si congiunge alla strada scavata dai satiri etruschi, era in quel groviglio del pepe dei muri, era l’impazienza infantile delle sue voglie di ragazza. Probabilmente ubriaca. Certamente incinta a sedici anni, Susan bruciò i tempi a causa delle troppe risate regalate od estorte. Sorrise tante volte anche a me che non la badavo, più attento a quelle pasticche intellettuali di ventenne che ad un amore consumabile gratis dietro alla siepe e sarebbe stato meglio. “Portami via, abbassa il finestrino stronzo che non ti faccio male” e poi via con un riso strano coi passi laterali e sbilenchi il suo sberleffo bruciante alla vita. Susan diceva parolacce regolari, ma non le indossava male. Che quando ritornò non aveva più il suo fiore, lo aveva fatto a Roma e si era impazzita del tutto. Susan distorceva, Susan era una stratocaster a tre corde e il resto del mondo era sbagliato. Susan si fece male con l’intenzione di farlo ed aveva diciasette anni e il bene in fondo che cos’è, ognuno lo ha per sé. Mi disse: “Ho pagato quell’imbroglio di ragazza” e non poté più dire altro. Rinchiusa come una poetessa battona in un centro di salute mentale. Chi ce la fa e chi no, novocaina acrobatica. Susan era solo un sorriso espresso in escandescenza ed il resto del mondo era irrimediabilmente sbagliato.

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