domenica 28 novembre 2010

L'estremo giorno di G. Brassens


Iniziava una giornata di mistral e Maurice prese la tabacchiera e la mise tremante nelle mani di Georges. Maurice vedeva in quegli occhi ancora sorridenti un senso di struggimento e di allegria, come all’ultima scampagnata di fine scuola, quando i ciliegi son cariche esplosive di rosso fulminante e grappoli felici di scandalo.
Si alzò dal letto Georges e toccò la chitarra senza suonarla, prese un LA, ma lo lasciò sulla poltrona di velluto. Prese un caffé con l’anice, prese la mano di Puppchen e non la lasciò, bambolina lo guardava seguendo ogni gesto accompagnandolo in un sorriso. Georges accese la pipa del tabacco bruno, si addormentò mentre puppchen gli tolse la pipa dalle dita e le carezzò una ad una come una madre. Maurice fece parola a bambolina: “se vuoi chiamiamo un altro medico, magari io, forse, in questo momento, forse, ragiono più da compagno che da dottore”. Puppchen fece no con la testa. Un no dolcissimo.
Sognava in questa ultima veglia e per primo arrivò campo di prigionia, campo di lavoro meccanico obbligatorio nella sua Francia apolide e poi amata, come una scelta ridicola, poi immensa. E arrivarono i canti della madre, di canzoni napoletane sul filo del rosario sul vortice della filastrocca e della ninna nanna che sfumavano in malinconici accordi minori.
Appena sveglio volle dell’acqua, la giacca da camera e si mise in poltrona. Ti ricordi bambolina quando Jeanne tornava col polmone per i gatti e noi ci toccavamo sotto il tavolo e Jeanne rideva dalla finestra vedendoci. Con la testa dava il consenso per il nostro non matrimonio nel modo più buffo e complice che tutti i contrabbandieri di Provenza non avrebbero potuto fare meglio? E Puppchen ricordi i primi concerti, quando avevo paura e sudavo come una lampada e il pubblico pagante si contava sul palmo di una mano? Puppchen teneva la mano e la intrecciava, in un rosario antico e anarchico, in un sorriso luminoso e composto, come due bambini innamorati. Puppchen ricordi le nostre promesse? Le abbiamo mantenute tutte e tu ora sei qui a bere insieme a me anice e pane dei lotofagi, non ti sarò mai abbastanza grato bambolina. Gli amici oggi no bambolina, oggi no...
Bambolina tu per sempre nella spiaggia di Sète, vicino al mio cuore. Suonavano alla porta e non era nessuno. Maurice bestemmiava e voleva fare mille cose, ma non ne fece una e così andava fatto. Bollire un thè, bagnare l’asciugamano e consegnarlo al poeta fu quello che fece, quello che era da fare. Il viaggio di Ulisse non ha termine e Georges sapeva l’odissea e le mille nausiche scivolate nel suo letto a mo’ di fiordalisi in fiore. Sapeva la sua vita come un vapore di Caporal, e la giacca da camera era intrisa di fibre di tabacco belga e francese, sapeva di aver consacrato il proprio corpo alla libertà testarda, di una misantropia intrapresa con ostinazione, solitario e sociale come un mio occhione.
“Maurice portami una tazza di brodo, delinquente e fai mangiare bambolina”, sorrideva. E quel sorriso spezzò un’aria da funerale che gli stava sul cazzo pur sapendo di parteciparvi in desinenza di prima persona, come una maledizione che non si accetta e si accarezza, come la brezza che porta Marsiglia in controventi abissali di canzone. Ora pensava a suo padre muratore e ipotizzò che il suo modo di comporre lo apprese da lui, una metrica perfetta e melodie a legare come la malta di quei muri poveri, come architetture dissolte, come città perfette ed incompiute. Una volpe nel bosco lasciò i segni urinando su macchia di corbezzoli, come il gattino che teneva in grembo a riscaldare quell’affezione irrecuperabile. Guardò i tasti del piano, sette ottave in 88 tasselli inconfondibili, il gineceo ancestrale della composizione e pianse un attimo. “Per chi ha preso la parte degli umili annientati lascio il mio testamento di poche cose. Lascio quell’onda che batte la riva e la sommerge, poi la riaffiora e la lascia sgualcire e la riprende rendendone l’onore”.
Svuotò il tabacco nell’orlo bruciato della tabacchiera, si rimpinzò di sorriso guardando Puppchen che lo copriva di una coperta grezza e di una soffice, tanta umanità d’amore per il pornografo del fonografo è sprecata sostenne e la voce fu per un istante il puledro bambino e libertario sulle paludi estreme di Camargue, dove tante volte camminò di buon passo, bestemmiando due volte ad ogni potere costituito e organizzato. Si guardò le gambe, erano magre. Bambolina trattene il fiato e scoppiò in pianti genetici, quando il sapore fu l’amaranto delle libellule e divenne pianissimo equilibrismo su campi elisi, quando il respiro fu lasciato a noi come un dono che proteggiamo ancora, come la cosa più preziosa e pura, come la scia di un abito da sposa.

1 commento:

  1. Non riesco a dire molto, dopo aver letto questo racconto...i miei occhi inumiditi e il mio cuore si riscaldato sull'onda delle intense emozioni.
    Bravo Angelo e grazie per queste bellissime cose che hai scritto sul Maestro.

    Massimo

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