martedì 23 novembre 2010

Il cappello del pastore


Dove sarà finto il cappello del pastore? Trascritto nei papaveri di un pomeriggio di giugno, nascosto tra le pietre di un fiume sottile, fra il covo dei briganti dei piroclasti maremmani, nelle mani di una bambina che giocava a campana.
Mariano correva e le pecore no. Di solito accadeva il perfetto contrario e gli accidenti che gli mandava erano flebili inviti alla stagione nuova. Ce n’era sempre una che risaliva il greppo, ostinatamente, la pecora bastarda che sta fuori dal branco, quella che non sa seguire percorsi retti, ma a curve e a imbrogli, ad anse ed a sospiri, a zigozago c’era un mago e fanculo alle pecore.
Quella leggerissima salita che porta al domicilio del pittore morto, dove le capinere cantano neniette infantili la ricordo geneticamente. Ora i miei passi e quelli di Mariano non la percorrono più. E grazie a Watson e grazie a Crick e grazie al cazzo.
Dove sarà finito il cappello del pastore? In un negozio di articoli da giardiniere, nella panetteria che sa di friabile, nell’alcova delle libellule, nel sogno di un bambino che attraversò il fiume.
Mariano era stanco. Si trovò steso per terra per una breve sincope, rigagnoli di pergamene e ciottoli dell’oceano scomparso, fossili di conchiglie buzzurrati dall’erpice a disco, lamenti di un cane a catena, l’assurda cantilena della marialapelosa. I cani maremmani si erano fatti più vicini, avevano piaghe di lato e la faccia stronza e dolce di chi ne ha viste troppe. Ragionavano per convenienza. Tu gli tiravi i crackers e ti sfuggivano, salivi sulle quattro ruote e avvicinavano leccando blandamente pane e terra. Come in una solitudine dispersa, come una ragazza che fa scena, come un bisbiglio sussurrato appena. La donna di Mariano era cazzo, come la signora Maigret, non si vedeva mai e se si vedeva non aveva un nome, presa da eterne faccende di casa ancestrali e lentissime, faticose ma scelte come una via crucis della banlieu degli zingari, come un berlinese che ti guarda di lato e con la faccia feroce, un naziskin povero di saccoccia, rasato come le pecore, sempre abbronzato come una pattumiera.
Dove sarà finito il cappello del pastore? Nel rancore delle bestemmie infrasuono di un uomo lasciato, perché ragionavano per convenienza. Così ciucci l’assenza e pisci fuori dal cesso che non ti manca l’amplesso ma quella carezza di buonanotte, perché non si è mai così effimeri come ti dipingono e l’inseguimento ha fine solo se la preda è svagata e parziale. Ci stai male e fingi, ti dipingi di colori improbabili, metti la scarpa antiscivolo, prendi la vita a pelo, organizzi uno sticazzi e lo lasci cadere nella lega delle rane e delle lenticchie d’acqua. Sei sommerso da quel fato avverso che ti cinge il collo e mormora di farti male e tu lo fai e sei allegro e sei del tutto scellerato. In buona sostanza scruti la stanza con lo sguardo del disappunto, dipingi pareti immaginarie e fai frastuono. Quando uscimmo a riveder le stelle, rientrammo subito nel puzzo della stalla, fu giocoso e simpatico quel calcio nel culo che ti porti e ti ricalchi nei pomeriggi caustici. Mariano inseguì un sogno che non fu mai realizzato ma quel canto notturno lo accompagna, bazzecole di briscole e vino beaujolais, toccandoci gli antipodi ci conoscemmo di notte e fu baldoria, di damigelle settecentesche e sfatte, di frasi che hanno appiglio nelle fratte, come la volta in cui lasciasti il cosmo per una sincope più forte ma che rialzasti parimenti il culo, come quando auspicando che quella ghirba di latta straboccasse di latte e tu seduto, invece di cercare tra la terra in basso, quel senso di infinito contrappasso. Respiravo a fatica, vapore di quel diesel anni 40 ritornava in ricircolo nel sangue, assestavo la zip dei pantaloni risalendo quella china profonda, damigelle spuntate dalla fratta a partorire quelle primavere di niente.
Dove sarà finito il cappello del pastore? Lo ritrovai ma ne fui invaghito che non lo consegnai a chi lo aveva inzuccato, come un cimelio della guerra dei mondi, come una grossa scheggia di granata infilzata nella chiappa. Lo ritrovai e seppi cosa fare, perché da allora ti ho portato a vita, in battaglie densissime e dolenti, in spargimenti di sangue e di calore. Uscivano dai portoncini delle chiese, piccole donne scavate dall’età, con uno scialle in testa a mò di tunica, sparavano i ragazzi le pallonate su saracinesche di alluminio e ghisa e il bar era pieno di persone a modo. Il meno stronzo era un criminale assiduo, uno spacciatore veterano per consuetudine. Le fioraie facevano lo sconto, la luna ed i falò in quel mercato della povera gente e te lo porti addosso quel senso di appartenere a un mondo di vigliacchi. Dal campanile rintoccava il vespro ed io misi il cappello da assassino, sciancandomi di vino e di già visto. In quei momenti in cui accarezzi il sacro, hai fretta non lo sai perché ti è scomodo, come un cappotto sceso da un armadio e tu lo indossi e sai che se ne è già andato. In quel vortice blu provi a specchiarti e le pecore scappate ad ammirarti.

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