lunedì 14 gennaio 2013

Le estasi di Medusa



LE ESTASI DI MEDUSA

capitolo primo

Gli indizi che gli sbirri presero in esame da subito erano: chi l’avesse vista per ultima, track delle celle del telefonino, gli sms, il pc, le tracce ematiche da controllare pcr dna. La stanza ne era colma, il muro affrescato con una sirena verdina imbrattato, sangue sui bicchieri e sul cuscino rosa che la aveva poi stronzamente soffocata. Medusa si era difesa, aveva già messo gli stivali e c’erano tracce pneumatiche di una resistenza felina. Passarono ambulanze, passarono dei rondoni, passò la colomba della pace e un povero cristo di ubriaco.
Non c’era un uomo preciso nella vita di Medusa, no. Fatti i rilievi del caso si sporse una denuncia contro ignoti. Ma gli inquirenti brancolavano nel buio più totale.
Marco il primo indagato aveva passato la notte con Medy, ma alle 5 era andato a correre, aveva un cardiofrequenzimetro giallo rovente da runner al polso. La data del decesso si stimava tra le otto e le nove ed alla otto era stato visto entrare al bar a giocare con le rubasoldi fino alle dieci. Scagionato. Aveva un alibi di ferro, Marco aveva forzato la porta, dopo inutili richiami e grida e aveva per primo visto quell’orrore deposto, adesso delirava stupidaggini, cercavano di contenerlo.
Il vaso con sopra le ortensie ci ha sopra le lucertole,  Marco pensò: "ora porteranno me a prendere aria dove c'è il gatto con le raganelle".  Era del tutto scollegato, era un cavaliere trafitto dalle punte acute della giostra, era un cuore apolide, ad autocontrollo stava a secco: sragionò, cominciò a colpirsi con un righello la fronte, le mani, la fronte, sempre con maggiore violenza;  adesso era fradicio di sangue, il destro dei suoi due occhi celestini, tumefatto. Pisciò sui pantaloni, gocciavano, bagnavano le piastrelle.

Stavano scrivendo un romanzo insieme e quando dettava Medusa, Marco scriveva, poi il contrario. Il punto centrale del romanzo voleva essere “il nulla” e stavano andando piuttosto bene. Dai tetti di Civitavecchia si vedeva il mare, i pescherecci, gli uccelli pelagici e le navi crociera, c’era una gelateria d’angolo che portava la roba a casa. Medusa era una nicodemista tupamaros e il suo lavoro da cassiera era una evidente copertura. Ma il suo gioco vero qual’era? Indagare il nulla ovvio o forse qualcosa di più strutturato e duro?



capitolo secondo

Gianni, il titolare della pasticceria stava disinnescando un candito da una torta di compleanno, era stranamente freddo quella mattina di fine aprile e la stufetta era guasta. Si guardò le mani, erano appiccicose di lievito, strinse le spalle nel soprabito, stava per uscire quando entrò come una erinni Elisabetta: “hai sentito di Medusa, la hanno uccisa come un ghiro, sgozzata povera Medy”. Gianni: “si ho sentito al molo non  si parla d’altro,  me lo ha detto Elisa stamani prima di farsi il suo solito cargo di bignè, è una disgrazia e comunque soffocata e non sgozzata, così  dicono almeno”. Gianni ed Elisabetta erano amanti, ma era crisi per noia e Gianni aveva pensato di dirglielo, ma non c’era mai occasione per aprire i rubinetti e: “oramai tra noi non c’è più nulla, meglio che prendiamo strade diverse, ci è piaciuto ora è finita”. Gianni aveva la faccia da figlio di puttana, ma non era affatto risoluto. Non lo disse neanche stavolta, la tolse scuotendola dalla sua spalla, lasciò Lorenzo al banco e si diresse al molo. Odori di bivalvi, di cozze soprattutto, un vigile in motorino, due sedicenni imbronciati si scambiavano la saliva e avevano fatto sega a scuola.

capitolo terzo

Cosa combinava Medusa nell’ora pranzo? che faceva dalle 13 e 30 alle 16 non l’ha mai capito nessuno. Prendeva un pullman ma per dove? Parlava pochissimo, teneva un libro sulle ginocchia fino alla destinazione, si faceva una crocca coi capelli, scendeva. Di lì andava per via degli Anelli, suonava un citofono, si rollava una siga. Medusa guadagnò a fatica il portone le cadde dalla busta di plastica della spesa una confezione di 500 g. di caffè Lavazza ma analogamente al sig. Roquentin non riuscì a raccoglierla; si mosse col busto in avanti,le gambe fecero una misera oscillazione all'indietro, la schiena paralizzata, insomma proprio per niente ce la fece. le aprivano e la scala era ripida come la vita. La porta la apriva un molossoide, lei entrava come una volpe. Stefano era il molossoide  ed era il direttore della rivista clandestina alla quale Medusa collaborava come redattrice, come factotum e vi porto anche da bere, perché questo voglio, questo è ciò che sono. La federazione anarchica informale aveva un ciclostile che si chiamava “ Le ali del lupo”. Stava per inciampare in una molotov, il giorno prima della sua fine e invece si sollevò come una farfallina e chi lo avrebbe detto? Medusa organizzava un documento strategico, lo avrebbe passato a Cristina, poi al molossoide che avrebbe corretto a modo suo. Gli informali sono strutturati in celle e hanno architettura orizzontale, le singole unità non avevano contatti politici e neppure si conoscevano tra loro. La cella di Civitavecchia non aveva relazione né con quella di Viterbo, né con quella di Latina o di Torino. Forse Medusa la aveva scelta per questo, come un rifiuto estremo alla piramide a cui soggiaciamo tutti, in cui c’è un rapporto gerarchico oppressivo ovunque: al lavoro, tra amici, nella coppia, tra semplici conoscenti, Medy non ci stava nel branco, rivendicava la sua unicità insindacabile come una religione, la sua religione e il suo credo d’infanzia. Aveva conosciuto Stefano ed era entrata a diciassette anni nella FAI. I capelli di Medusa illuminati dalla lampada ad olio erano un campo d’orzo, la testa chinata sul tavolo come una madonnina di Paolo Uccello. Quello che faceva Medusa era illegale, era illegittimo, era vietato, era contra legem, era simil terrorista, sinceramente lei se ne fregava. Quello era il suo vero impiego, aveva scelto una destinazione sparpagliata, come le curve che portano alla montagna di Allumiere e gli alberi di Giuda dipingono il mondo di piccolissime schegge fucsia.

capitolo quarto

L’ispettore capo Perugini non era un fesso, conosceva il mestiere e aveva la pazienza di una chiocciola nel condurre le indagini. Sapeva che per ogni omicidio servono le tre M: movente, mezzi e maledetta occasione, aveva letto John Fante e  il “mestieraccio”  ce l’aveva: amava la lirica e le pause tra gli atti, quando tutti si soffiano il naso, sapeva che l’elemento rivelatore poteva sgorgare quando meno te lo aspetti e farsi un giro di nascosto tra gli amici di Medusa, senza interrogatori era la procedura più promettente. Era la giusta e scura ouverture del Lohengrin. Talvolta andava lui, altre volte mandava l’agente scelto Scarpa o l’assistente  Chiaravalle. Ma essere criptico tra i criptici porta a poco, avevano la nausea tutti per questo caso, mostravano palpabile sconcerto, avevano voglia di chiudere presto la pratica. Pasticceri, portuali e anarchici non parlano se non per monosillabi di metalinguaggi. Perugini era imperturbabile ma dagli occhi sottili come chiodini traspariva una durissima amarezza. Si voltò, i suoi occhi incrociarono uno specchio; si buttò addosso un cappotto e uscì facendo battere la porta come allo zoo fanno gli inservienti distratti con le gabbie.


capitolo quinto

Medusa aveva una bocca che meritava un ragionamento. Raccontare Medusa solo come una combattente è una totale stronzata. C’è poco da ricevere e poco da regalare e allora cosa sarà di me?
Cose che piacevano a Medusa: farsi vedere mentre si alzava dal letto come la Lola di Izzo e lo spettacolo era smisurato, sognare ad occhi aperti, giocare a pallavolo, leggere letteratura americana, camminare senza scarpe, tenere il bavero alzato. Cose che non piacevano a Medusa: il possesso dei beni, a meno che non fossero  capi d’abbigliamento per lei, l’oppressione dei deboli, le giornate senza vento i ragazzi coi capelli corti.
Aveva preso una matita e iniziato a disegnare il sole con una vallata ed il sole era rovesciato, la valle era in alto. Suonarono per firmare una raccomandata ma non scese, fece l’allocco e finse di non sentire. Gorgogliava il caffè, aveva una vestaglina celeste, spense il fuoco e senza zucchero. Cose di cui Medusa aveva paura: le domande troppo personali, la cadenza di un orologio, i cani piccoli e soprattutto il temporale. Quando c’era un temporale telefonava sempre a qualcuno e allungava il brodo perché non voleva stare sola, telefonava anche a sua madre che detestava seriamente, ma in quei casi era un vero toccasana perché non finiva mai di blaterare stupidaggini.
Medusa era stata violata sedicenne, e quella rabbia le era restata nella tasca dell’eschimo, insieme a un foglietto di precetti da recitare qualora l’avessero arrestata e insieme ai trucchi che non entravano nel tascapane. Medusa era quella bambina rifugiata in un campo di sterminio. Volgiti indietro, e tien lo viso chiuso: che se il Gorgon si mostra, e tu il vedessi, nulla sarebbe del tornar mai suso. Il temporale schiarì, Medusa salutò sua madre: “ciao mamma, tu hai un passato, io un futuro e cornetta giù. Medusa aveva detto “ti amo” una sola volta e capitò a quindici anni, mentre studiava per la prima liceo, girava la puntina sul vinile di Rimmel, “hai ancora le tue quattro carte, bada bene di un colore solo”. Era a casa di Luciano, sulle pareti il quarto stato, un poster della a.s. roma e marthin luther king, sopra la porta uno di un vietcong che cadeva mitragliato con sopra la scritta “why?” Era l’età in cui i fiori sbocciano anche di inverno, l’età dei visi sorridenti, la scoperta della donna, l’età dell’albeggiare dei glicini.


capitolo sesto

L’ultimo sms ricevuto da Medusa era di  Lorenzo il garzone della pasticceria, trentenne, capelli rossi e lentiggini piccole. Alle sei e zerocinque, diceva: “Medy ti è piaciuto il corn. alla pnn che ti ho port? sai che quando li faccio per te metto più fior di latte,  dai se vuoi una di queste notti usciamo”. Medusa non aveva risposto. Se non avesse potuto o non ne avesse avuto voglia chi lo sa? chiedilo a un gatto di passaggio. Perugini aveva convocato di nuovo la scientifica, trovarono poco e allora allo zelante ispettore capo non restò che richiedere un nuovo esame autoptico. Stavolta toccava a lui andare al molo a interrogare un po’ di pescatori, qualche diportista, qualche sfaccendato e ancora nulla. l’unico argomento trattato era chi avrebbe fatto le mosche per il giorno seguente, nessuno collaborava, cianciavano, raccontavano ma solo di argomenti collaterali, forse non sapevano proprio Si passa all’interrogatorio di Interlenghi Lorenzo decisero alla Mobile.
Salì Lorenzo dopo la convocazione, aveva paura e fece il giro lungo, camminava un po’ sciancato per la strizza e perché doveva pisciare. Lo sguardo era pieno di lacrime. Scese da via francesco crispi, voltò le briglie a destra per viale garibaldi fino a via della vittoria dove Scarpa e Perugini lo aspettavano seduti dietro una scrivania di provincia, con sopra una gigantesca lampada verde d’ottone che stonava forte, i quotidiani come un branco di pecore fuggite dal recinto. Entrò Lorenzo e gli chiesero di tutti i suoi spostamenti dalle cinque alle nove, ma il suo alibi poteva essere solo quello delle delicatezze sfornate. Ammise subito che era stato da Medusa e in quei dieci minuti aveva chiuso portone e serranda, Tornato non era più uscito così disse, ma il suo imbarazzo da timido lo aveva messo in cattiva luce e si trovò in un niente iscritto sul registro degli indagati dove c’erano già il molossoide Stefano, Elisabetta, e Marco il cui nome era barrato con una matita che ne legittimava l’estraneità ai fatti e lo scagionamento. L’ispettore capo Perugini cedeva al suo vizio, gin e angostura con una fogliolina di menta.

capitolo settimo

Le “magliette” glie le portavano sia Marco che il molossoide e ogni volta che era sola ne prendeva una. Ecstasy da dio, mal di testa, euforia centralizzata, santa madre del dolore e del desiderio. Medusa non pagava mai, le magliette entravano in un forfait metafisico che i fornitori accettavano e si sa il perché. La sera della sua fine si era incontrato con Marco su una panchina sverniciata del lungomare, le palme portavano i rami quasi a terra, il libeccio li teneva appiccicati. Presero la pasticca lì e cadde tutto dalla borsa di Marco, anche un detersivo per i piatti. Si separarono per un po’ perché Medusa doveva passare un attimo al giornale e Marco in palestra  un po’ di pugilato, un po’ di pesistica.

capitolo ottavo

Ma perché Elisabetta era finita nella brodaglia degli indagati? Elisabetta lo sapevano tutti aveva una gelosia ossessivo-maniacale. La gelosia delle amanti è ampiamente più brusca di quello di una compagna o di una moglie, questo lo sapevano tutti. Quei momenti di attenzione, di sudore e di sesso spiccio, erano appunto lampi e tuoni di un momento e ad Elisabetta mancava il quotidiano esistere, mancava il riflesso degli occhi di Gianni ogni sera nei suoi. Gianni era un brav’uomo ma un mentitore colossale e il mantra “dai amore, lo dico a mia moglie, ieri non ho potuto, devi avere pazienza, io esisto solo per te” era così scontato, era una fottutissima e scontata menzogna, lo avrebbero capito tutti, una presunta innamorata no. Per Gianni era stata da sempre una storia low-cost. Elisabetta nei suoi fuoripista mentali era convintissima che Gianni e Medusa fossero amanti e a Perugini lo aveva riferito Lorenzo molto prima della sua convocazione formale, fu la prima cosa che disse: “quella è una pazza, io non so nulla ma quella è una stronza pazza”. L’ispettore capo Perugini segnò tutto su un taccuino e poi fece il resto della liturgia sacra. Gianni e Medusa non erano amanti, non passava per la testa a nessuno dei due. Un cane vagabondo odorò, oscillò tra  pasticceria e  alimentari, un ford transit scassato transitò.  Raccattò  magre bambine braccianti avventizie.

capitolo nono

Perugini era furibondo: “dovrei avere una squadra di segugi e mi ritrovo una squadra di chihuahua. Come è possibile santoiddio che non riusciamo a fare un passo avanti. Scarpa, Chiaravalle volete andare a pulire i cessi con le mani per i prossimi due anni o lo muovete il culo?” Fumava Perugini come la ciminiera grigia che aveva alle spalle. Continuò: “dalla Procura mi chiamano ogni giorno e io cosa rispondo che giochiamo a briscola? Il Messaggero titola tutti i giorni che siamo dei fannulloni e che possiamo dargli torto porcatroia?”. Non la stava prendendo bene l’ispettore capo Perugini.
In realtà la mobile non aveva fatto malaccio: cercato negli ambienti anarchici e nulla, in quel baillame di ordigni e progetti di insurrezione niente portava a Medusa, anzi la piangevano come una pedina in meno. Cercato sul pc di Medy, con lo scandaglio la posta elettronica, ma ne usciva solo un uso casuale, un calendario sugli orari mensili dei turni al minimarket, siti internet frequentati esclusivamente di saggistica politica, non chattava. Sul cellulare la stessa cosa, la sua presenza sul mondo era agita con  una discrezione regale, ma non in palazzi rinascimentali, in mezzo alla gente, in mezzo agli steli verdini dei prati. Ma la gente era troppa, era tutta la gente che si affollava per i mercati del pesce, per i mercati delle pulci, per chi lungomareggiava con un gelato. Suonarono alla porta. Era un uomo che voleva fare dichiarazioni spontanee sul caso, Di Luigi Stefano cognome e patronimico. Era un cinquantenne amico del molossoide, non di tendenza anarchica, ma più trozkista si direbbe e che aveva ricevuto, diceva lui, delle confidenze. C’era un compagno, tale Luigi Marri che si vantava di poter avere Medusa ogni volta che voleva. Il Marri è un violento continuò, ha il porto d’armi e una serie di coltelli da mattatoio. Si guardarono tutti sconcertati. La deposizione fu battuta a macchina da Chiaravalle. Punto di svolta gridò Scarpa, è il punto di svolta!
Peccato, Marri fu convocato e si seppe che Di Luigi gli doveva euro cinquantamila per una ristrutturazione casa non pagata, si seppe che il Marri riceva quotidianamente telefonate anonime dal Di Luigi e che una volta, lo stesso Marri fu accoltellato alla testa di striscio dal suddetto fetente che a detta di Perugini si era dimostrato null’altro che un mitomane psicoide. Marri lo denunciò e via con una serie di procedure e avvocature che niente avevano a che fare con l’epilogo atroce di Medusa. Si stava al palo un’altra volta, o così sembrava. Come  una posizione difficile di Andrès, come la calma ricerca della mammella della pecora,    come l'eco ripropone e dio dispone,  nulla è nuovo e tutto somiglia e così la biada di Santa Marinella ha gli stessi t colori di quella arlesiana. Come nulla ti potrò dare, nulla avrai tu per me e la  rincorsa  avrà fine solo se  la preda sarà svagata e parziale. Perugini era uno che pensava.




Capitolo decimo

Dai tabulati telefonici, l’ultima chiamata di Medusa fu alla sua amica Chiara ed era dolcissimo colloquiare:
C: ma cosa ti metti domani sera che si va alla festa di Laurea di Antonio?
M: Chiaretta se non mi conosci tu? dei jeans e un blusa, tanto sono uno splendore lo stesso (risata)
C: Urca è vero Medy. Ma le magliette chi le porta?
M: domani meglio di no, sai Chiaretta qualche volta succede che l’euforia valichi il passo, io le tengo bene, ammortizzo da dio, ma non è per tutti così lasciamo stare.
C: Si hai ragione, poi se lo dici tu tesoro (risata).
M: tu mettiti gli stivali eh che sei una strafiga, ciao (sorriso)
C: ciao
E l’ispettore capo decise che tutti gli esami sul luogo del delitto erano conclusi e mandò a pulire la casa criminale da una cooperativa appaltante della Polizia di Stato. Erano tre uomini e una donna i nettatori autorizzati, Maria era la cognata di Scarpa e con Perugini aveva avuto un flirt bambino.
Nella stanza della Mobile, roteavano i caffè, le ombre dei crocieristi si allungavano sui vetri, i frutti dei platani sovrapponevano, odore da penitenziario.
Come una furia, come cristo al tempio, come un assolo di Bambolablu al cinodromo, Maria quasi ruppe le porta entrando: Perugini corri, corri ti dò la primavera. L’ispettore capo arrivò con la pipa accesa. Maria urlava: “stavamo pulendo quel vuoto che sta dietro ai lavandini, non so come diavolo si chiama, al bagno, lo stavamo pulendo e rovesciato nella sua parte opalina e impolverata c’era sai cosa? c’era sai cosa? un orologio di plastica, oppure no, non era un orologio, era uno di quegli aggeggi che si mettono al polso quelli che fanno jogging, o quelli delle biciclette, quelli che corrono insomma, girandolo abbiamo visto che era giallo rovente, non lo so Perugini non lo so miodio, forse non serve a nulla, ma qualcosa mi diceva che te lo dovevo portare. Perugini era una sfinge e non sorrise.
Marco fu preso alle mangiasoldi, era ubriaco e strafatto di pasticche, Marco non le sapeva reggere le “magliette” e la sera prima della fine volle di nuovo il sesso che Medusa non si decideva a offrire. Doveva andare in negozio, Medusa teneva ad essere puntuale sempre, era una delle tante sue forme soavissime di leggerezza. Per ventitre anni circa e più o meno, il corridore costò centodieci euro al giorno, più le iniziali spese di spedizione imballaggio escluse.


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