Lo ricordo ero sui 13 e non so perché
non giocassi quel giorno. Non fu una scelta del mister non schierarmi nell’11
titolare, forse ero già convalescente dalla vita o da una breve febbretta
saisoniere. Era l’oratorio del “Paradiso” e un campetto fatto di zolle e
pozzanghere nella mistica dominate della
gramigna. Insomma non giocavo ed ero su una panca, non vestito da pallone. Vicino a me si depose
un ragazzetto sui 16, leggeva l’Unità. Lo guardai e un po’ lo conoscevo e non
mi stava da nessuna parte, appena sul cazzo ma non così da farci caso.
Tuttavia, avvenne una scelleratezza che me lo fece poco dopo assurgere a piccolo mio primo e privatissimo
mito “sensibile”. Come da un pioppo scende in volo la cornacchia sulla coccia
del cacio, arrivò un padre cappuccino qualsiasi che gli sradicò di mano il
giornale, stronzando con voce ferma e stridula: “ Tu con questo non c’entri qui
e gli occhi erano braci e fece per strappare l’editoriale di Pajetta su uno
sciopero in Fiat. Il ragazzo disse no, si riprese il giornale e “allora me ne
vado e non ci rimetterò più piede qui”. Ed io pensai che era come gli avessero
strappato il polsino di una camicetta nuova, una cosa “sua” storpiata per
qualcosa che era solo ombra di odio e disprezzo. E il ribelletto che un genio
non era non aveva però accettato il
sopruso. Quell’abito di cristo meritava maggiore classe e mi chiesi anche io se
stavo bene dove mi trovavo. Pensai di no e tutta la panca si alzò per rispetto
e in simultanea, lasciando il contenuto della tonaca infuriato e senza più
parola. Poi la sera ripensai e qualcosa di profondo mi strinse e non andava
niente bene quello che era successo. Non pensavo in modo politico, pensavo a
una farfalla con le ali tagliate, a una merenda rubata a un furto comunque
stranamente ideologico.
A quei tempi ti aggregavi in
parrocchia o al partito, oppure potevi scegliere di stare per strada e andare
poi dove ti capitava e ti portava l’ispirazione. Ovvio, ero nella terza
categoria, quella dove arrivano calci e sputacchi e per segnare dovevi
scassinare la tibia al difensore e difenderti da coltellate senza metafora, ma poi quando accadeva eri alle stelle di una
felicità piena e criminale. Poi tornavi in una casa medio borghese e facevi il
figlio. Nicodemista da piccolo e da adulto, per scuola di pensiero, per
accidia, per amore e per diffidenza.
Ascoltavo guccini, bach, vivaldi
i jethro tull e qualcos’altro. Ascoltavo senza saperlo le parole di un
contropotere che non presupponeva come architrave della società, forme
gerarchiche, organizzate, precostituite. Quindi anarchico ante literam e ante il resto. Già perdutamente dissidente, ancor prima
di capire da cosa dissiedessi. Fu l’ultimo anno del bar e della santa messa fu
l’anno della scissione delle squadre e noi scegliemmo di chiamarci “gli orange”
in onore di santo Cruyff e cugino Rensembrink. L’adolescenza iniziò in un prato
di nessuno dove costruimmo le porte e mettemmo i maglioni a delimitare le linee
esterne. Unica regola che accettavamo e condivisa, quella di stare nel nostro
recinto calcistico, in cui se il pallone andava nel fosso potevi andare a turno
a riprenderlo e ti potevi fermare a vedere le rane. Lancia lungo per Neeskens
stronzo, in culo bambinezza stiamo arrivando e siamo un respiro dolce e poderoso.
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