venerdì 21 dicembre 2012

Schegge adolescenziali



Lo ricordo ero sui 13 e non so perché non giocassi quel giorno. Non fu una scelta del mister non schierarmi nell’11 titolare, forse ero già convalescente dalla vita o da una breve febbretta saisoniere. Era l’oratorio del “Paradiso” e un campetto fatto di zolle e pozzanghere nella  mistica dominate della gramigna. Insomma non giocavo ed ero su una panca,  non vestito da pallone. Vicino a me si depose un ragazzetto sui 16, leggeva l’Unità. Lo guardai e un po’ lo conoscevo e non mi stava da nessuna parte, appena sul cazzo ma non così da farci caso. Tuttavia, avvenne una scelleratezza che me lo fece poco dopo  assurgere a piccolo mio primo e privatissimo mito “sensibile”. Come da un pioppo scende in volo la cornacchia sulla coccia del cacio, arrivò un padre cappuccino qualsiasi che gli sradicò di mano il giornale, stronzando con voce ferma e stridula: “ Tu con questo non c’entri qui e gli occhi erano braci e fece per strappare l’editoriale di Pajetta su uno sciopero in Fiat. Il ragazzo disse no, si riprese il giornale e “allora me ne vado e non ci rimetterò più piede qui”. Ed io pensai che era come gli avessero strappato il polsino di una camicetta nuova, una cosa “sua” storpiata per qualcosa che era solo ombra di odio e disprezzo. E il ribelletto che un genio non era  non aveva però accettato il sopruso. Quell’abito di cristo meritava maggiore classe e mi chiesi anche io se stavo bene dove mi trovavo. Pensai di no e tutta la panca si alzò per rispetto e in simultanea, lasciando il contenuto della tonaca infuriato e senza più parola. Poi la sera ripensai e qualcosa di profondo mi strinse e non andava niente bene quello che era successo. Non pensavo in modo politico, pensavo a una farfalla con le ali tagliate, a una merenda rubata a un furto comunque stranamente ideologico.
A quei tempi ti aggregavi in parrocchia o al partito, oppure potevi scegliere di stare per strada e andare poi dove ti capitava e ti portava l’ispirazione. Ovvio, ero nella terza categoria, quella dove arrivano calci e sputacchi e per segnare dovevi scassinare la tibia al difensore e difenderti da coltellate senza metafora,  ma poi quando accadeva eri alle stelle di una felicità piena e criminale. Poi tornavi in una casa medio borghese e facevi il figlio. Nicodemista da piccolo e da adulto, per scuola di pensiero, per accidia, per amore e per diffidenza.
Ascoltavo guccini, bach, vivaldi i jethro tull e qualcos’altro. Ascoltavo senza saperlo le parole di un contropotere che non presupponeva come architrave della società, forme gerarchiche, organizzate, precostituite. Quindi anarchico ante literam e ante il resto. Già perdutamente dissidente, ancor prima di capire da cosa dissiedessi. Fu l’ultimo anno del bar e della santa messa fu l’anno della scissione delle squadre e noi scegliemmo di chiamarci “gli orange” in onore di santo Cruyff e cugino Rensembrink. L’adolescenza iniziò in un prato di nessuno dove costruimmo le porte e mettemmo i maglioni a delimitare le linee esterne. Unica regola che accettavamo e condivisa, quella di stare nel nostro recinto calcistico, in cui se il pallone andava nel fosso potevi andare a turno a riprenderlo e ti potevi fermare a vedere le rane. Lancia lungo per Neeskens stronzo, in culo bambinezza stiamo arrivando e siamo un respiro dolce e poderoso.

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