lunedì 24 ottobre 2011

Ercolino sempre in piedi


Aveva quell’aria nobile da cane bastonato, l’aillure vagabonda di un ginestra bruciata, piegata, rivoltata nei segni delle ceneri. Matite colorate. Troppe righe di dolore sul suo volto, frutti di quell’ottobre interminabile e viola. Piegato, stretto come un glicine alla ruggine dei suoi pensieri e troppe volte sconfitto e ancora una volta riuscendo nell’industria di un sorriso. Era un titano nudo figlio di Urano e della Madre Terra e tutti lo chiamavano “Ercolino sempre in piedi”. Stantuffi, valvole, pistoni, solo aria e baricentro il pupazzetto della michelin di una società espansiva e dispersa. E non sapeva indossare che vestiti di stracci, in quella mattina battona camminava facendo il pelo al peperino del viale. Tu sai che nella vita c’è sempre una partenza ed un arrivo, un incipit dei flauti ed un prologo degli ottoni, mentre il direttore si scarmiglia, vibrando quel legnetto di frassino e chiudendo le mani in una specie di ringraziamento estremo agli orchestrali. Ercolino sempre in piedi non era così, lui era il punto centrale di una semiretta perfettamente disegnata e tumefatta, come chi nella angoscia trova il suo punto di equilibrio gravitazionale. Era un eroe della classe, fiocchetto blu dei diseredati, spina nel fianco del viavai borghese. Semplicità di stelle nel tramonto delle suole, rovistavo tra le pattumiere, trovandone un frammento. Indossai la sua giacca di lino abraso, scoprii le lattine e uscì il suo orologio da panciotto, logoro e rigato a crudo, denudai le plastiche, c’era il suo bastone da passeggio. Come il lampo di un’anatra sollevata dalle canne, come l’istante che pretende una risata, pretesi e lo fui. Io come una sua parte. La notte tu sai ha un punto centrale, provai a disegnarne le diagonali per incrociarlo, Ercolino sempre in piedi stava due passi avanti, era il fantasma impossibile di ogni persecuzione e lo sforzo fu vano e mi ritrovai vestito da cretino con gli avanzi degli avanzi dei suoi abiti e dei suoi passi vaporosi. E provai a chiedere a un passante, uno che aveva i cazzi suoi, risposte nada e dovevo fare da solo. Angoli, rimasugli di acrobazie, preservativi di risulta a piazza del sacrario e il suo odore da una cabina enel. Scavalcare o togliere inferriata, la tolsi e fui vicino, per nulla sorpreso accese la bocca in un sorriso con gli occhi chiusi di chi può offrirti la vita. Edera e bottiglie e balzammo dentro l’uscio e così fece di sedermi e lo feci. Tavola d’abete su bidoni di vernice, lui di fronte a me, io tavola di alluminio su ceppi di acero campestre. Polsi piegati sulle ginocchia, testa che reclinava il mento sul petto, Ercolino sempre in piedi ora era così, l’immagine di cristo sulla croce. Allungai le gambe senza nessun rumore, senza guardarci, senza alcuna intrusione in quell’attimo in cui può cantare una civetta, puoi scannare qualcuno senza colpa, in quell’attimo delicatissimo di cenere bagnata, in quell’attimo lentissimo, crudele e violento che puoi chiamare amore.

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