giovedì 15 settembre 2011

Mon petit Brassens | gli occhioni di Angelo |



Georges aprì la strada romana che portava dal Monte Palanzana fino giù viale Trieste. Arrivava da est e aveva noleggiato una vettura chi sa dove e la punta della custodia usciva dal finestrino. Immancabilmente fumava tabacco bruno in una st. claude diritta e guardava le donne di Bagnaia con quello sguardo da stronzo malizioso e occitano, con quegli occhi sassoni con fiori mediterranei. La luce italiana la aveva presa da sua madre, lucana e vedova di guerra, che da bimbo lo cullava con le nenie tenere delle canzoni di Napoli. Lo avevo invitato per lettera e Georges aveva accettato perché tra anarchici e compagni di pipa si fa. Nella mia lettera c’erano promesse di tabacchi, bugie di donne, ma soprattutto volevo portarlo a vedere gli occhioni. Sorprendentemente mi rispose di si e che una volta aveva sentito parlare di occhione da un suo vecchio amore sulla spiaggia di Sète. Dissi che non avevo mai portato nessuno, ma che prima della nostra fine planetaria avrei tanto desiderato che li vedesse anche lui e insieme. Giunse mon petit Brassens ed era vestito invernale in quel maggio che non ha date, una giacca di pelle col bavero tirato su pantaloni di velluto e scarpe coppale lucidissime. Era un dandy naturale e non potei non ammirare la sua bellezza. Georges come ti sei vestito? Non andiamo mica a ballare, si va per prati secchi e pietre e le prime parole furono queste mentre gli occhi sentivano lo specchio. Lo sentiva anche mon petit Brassens che non disse nulla come feci io, lo aiutai a togliere il soprabito e lo poggiammo sul divano buono della stanza del the. Saremmo andati la mattina dopo a cercare quell’uccellino nascosto e ora c’erano da fare i convenevoli e la cena. I primi furono semplici, un abbraccio e basta, ma cucinare per Georges fu un casino. Non gli andava bene nulla, finchè amorevolmente prese lui il comando delle operazioni di padella e preparò dei crostini con pane fritto e una deliziosa crema di cibreo. Era un gran cuoco Georges non lo supposi mai prima d’allora, ma il cibreo glie lo insegnò Jeanne che lo cucinava male e alla francese, ma si perfezionò con l’Artusi mon petit Brassens. Avevo anche io una chitarra ma all’inizio non volevo e Georges era in gran spolvero e gli andava di suonare quella notte. Iniziò Reginella, poi saltava il testo e rideva, continuava a suonare note barocche senza costrutto, sussurrandoci sopra e volle farmi sentire heureux qui comme Ulysse e poi Margot, biascicando il testo pipa dentro la bocca, uno spettacolo grandioso e suonavo anche io con lui dopo due ore, facevo un solista leggero trainato dal cuore e veniva bene. Poi tutta la notte così fino alle treeventi. Poi il bollitore e la marmellata sul tavolo bianco di formica. Prendemmo il necessario, livello dell’olio, benzina, si va. Quel viaggio non fu lungo e mon petit Brassens si voleva fermare a ogni cava di tufo, ma gli dicevo di no il fumo e la macchina procedevano in una nuvola di olivi e lecci, lasciavano spazio alle praterie e alle pecore su travertino sulfureo. Georges parlava piano e confessava che la sua musica era tutta italiana e tedesca, quella ascoltata da bambino e poi nei campi di concentramento, aveva poco di francese e quindi ne era diventato archetipo alla cazzo, ma questo gli piaceva, piaceva da fottere anche a me l’involontarietà evidente della sua gloria. Perchè fai questo mestiere mon ange mi chiese? Gli risposi per lo stesso motivo per cui fai il tuo e ridemmo a punzecchiarci. Si parlava di donne e lui mi descrisse puppchen così: “un arcobaleno nella nebbia della vita”, restai un attimo senza parole come di fronte a un marmo di Rodin. Vedevo quello che avevo previsto, mio padre e mio compagno. C’era del filo spinato basso da scavalcare, dietro si vedeva l’Amiata con sopra gli elicotteri zaini antincendio. Mon petit Brassens lo sai che ci siamo? Facciamo un giro largo e vediamo che succede, i passi congiungevano le emozioni in quel volo. Poi si alzarono due, una semiluna e a sconfinare nelle stoppie di grano tenero, e altri due sopra la pipa di Georges che mi prese il braccio e strattonò, gli occhi lucidi: “merde, putaine d’une putaine” Quella strada di sassi, virgole di coppale e di gomma “Angelo sono contento, sono felice”. “Georges sai che da ora siamo immortali vero?” Lui fece si senza domandare il perchè, sapeva che quell’inghiottitoio di malve e carciofi ci avevano stretti in un esercizio di sangue eterno. I compagni prima di tutto iniziò a fischiettare e gli occhioni cantavano nel pulviscolo delle vacche di maremma. Tornammo e senza claustrofobia e mon petit Brassens mi chiese di visitare le mignotte della città. Lo faccio sempre e ne voglio vedere gli occhi e in quel dolore specchiare il nostro incontro. Fui felice e si passò dalle albanesi, dalle moldave sulla strada di Tuscania, poi da quello sfatte e senza “pappa”. Le guardava con gli occhi di dio e della misericordia, lo sapevo già che quelle mani callose stavano per congiungersi. Lo vidi da dietro, bavero basso e un taxi a nolo: “sai Angelo mi hai fatto felice?” Me lo hai già detto mon petit Georges e le parole non furono altre, Georges mi hai reso il più bel dono della mia vita e quasi lo urlai, mentre accendeva con noncuranza coi prosperi. Le ranocchie e i rospi di Bulicame per darci una stretta di mano così forte che svirgolarono le falangi. Poi l’orizzonte tante volte rivissuto, in quella strada e non era il ricordo che non abbiamo mai voluto. Poi così dentro in quello scontro d’amore e per due giorni seguenti la febbre.

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