sabato 11 dicembre 2010

La piccola banda dell’utopia bambina


La città non era quieta all’alba del settantotto. Passò gennaio silenzioso e lieve ed era subito marzo con le promesse dei clavicembali della primavera. Eravamo in 4 quelli della piccola banda dell’utopia bambina. Tutti sedicianni. Fabrizio aveva tra le braccia un palo di castagno per telegrafia e lo teneva insieme ad Angelo, Mimmo e Salvatore, uno strumento di potere nelle mani della classe adolescente. Era notte e il freddo bucava quei guantini di lana fatti a casa e l’obiettivo il vetro di una pellicceria notissima del centro. Credo blindato. Esponibili visoni, volpi, linci e rat muské. Il botto sembrò una bomba, l’atto dimostrativo sfuggiva un po’ di mano, come un bicchiere di troppo, come una carezza a una donna che non se la merita, come un vestito secco per un uomo grasso. Ci fu un problema di densità. Le suole cigolavano sui piroclasti del centro città, passò una polizia ma si faceva i cazzi suoi. C’era chi volantinava e chi scherzava, passavano di mano i giornali con titoli ammerda tipo “efferato atto criminale nei confronti del commendator Strozzacavalla, stimato commerciante di Grottaserramanico”. Si può essere pentiti e felici, non lo so, noi lo eravamo. Vandali e periferici come un tramonto che invade i centrocittà e colora le palazzine color fumo di Roma, come la salsedine rende bellissimi due amanti nudi sulla sabbia e li circoscrive tra l’amore e lo stagno, come un vecchio che da la mano al nipotino e in quella stretta si vedono le ossa di una vita onesta in una catapecchia di tipografia a maneggiare piombo e ha le unghie ancora sporche e ride ed è felice. Le televisioni bianconero raccontavano i comunicati delle Brigate Rosse, Moro era stato rapito e lo sapemmo dai megafoni a scuola a esercitazioni di chimica. Eravamo troppo incerti per capire che quello fu il crocevia di 50 anni di storia italiana, dalla resitenza alla liberazione fino ai nani e alle ballerine.
E fu la volta, settimana dopo, pioviciccava serrato in corso nazionale e Mimmo e Salvatore tenevano i secchi e Angelo e Fabrizio avevano compiti di radaristi e lancio. Imbrattatori di tela no, imbrattatori di stupidissimi almanacchi dominanti fatti di pellicce di dolcissimi animali si, in corpi sfatti di umani paranoici e pazzi. La piccola banda dell’utopia bambina almeno la pensava così. Ma se pensava agiva, schizzava e fuggiva, rovesciava la vernice addosso e sfumava nei vicoletti, come vaporetti, imprendibili nell’odore nauseante delle friggitorie. Sette attacchi, sei centri, un lancio di cobalto lo scagliò Angelo a Mimmo per una piccolissima insolenza da stronzo. Ridevamo. Il primo è un cane di guerra e nella bocca ossi non ha e nemmeno violenza. Radicali volantinavano, quelli del PCI volantinavano, i fasci volantinavano, volantinavano anche quelli del PLI e ho detto tutto. Psicosi languide, fascinazioni teoriche che non capivamo. Volantinare per Valerio Zanone? Ridevamo fradici. La piccola banda dell’utopia bambina è spiccia come il resto dei gettoni, come il furgone del lattaio meticolosa e zigazag. E i gochi erano in buona sostanza due: la classifica dei sederi delle bimbe e la tesa del filo da pesca per far cadere i cappelli nelle strettoie dei marciapiedi, magari mettendo dei cartoni a invito laterale obbligatorio come cavalli di frisia per pezzenti e fluff-fluff giù per terra. Nei giorni che ti alzavi accazzo c’era anche il pallone o guardare un solaio in quattro per contare quanti gettavano lo sguardo all’accadere del nulla e il record fu di sedici a torcicollo. Il secondo è un bastardo che conosce la fame e la tranquillità ed il piede dell'uomo e la strada.
Il bidello è un complice archetipico e lo fu, correo come l’antonomasia obbliga. I voti dei professori stavano sui registri, ogni docente il suo e lo sanno anche le papere. Ma in aula “ricevimento genitori” c’era una tenda e Mimmo si nascose come un astore su un larice, anche se uscivano le scarpe anfibie, ma lo stanzone era una abbazia e non ci fece un cazzo di caso nessuno, tutti tiravano dritti e si vide la chiave scivolare in un cassetto laterale di quella stiglieria grigetta di alluminio. Mimmo non era per niente emmetrope ma occhialini sbiecati per la strizza vide. Renzo non sapeva nulla, ma obbediva: “a Rè se entra un professore sei un cretino, tu appena lo vedi nel corridoio fischia piano che il resto so giochi nostri”. E fece così, un palo perfetto più largo che lungo, sorridente. E fu carino che ci correggemmo i voti di quasi tutte le materie, educazione fisica e religione no, e fu carino che lo facemmo anche per popolo di altre classi limitrofe che non conoscemmo mai se non parallelamente, in quelle aule oblique dove si sentivano urla e rantoli. Come sempre noi gli indiani metropolitani dimostrativi, jazzisti giocherelloni in acrobatiche poliritmie e progressioni armoniche. Stramazzo che bestia quella volta. E il terzo è una cagna, quasi sempre si nega, qualche volta si dà.
E’ brevissimo quel tempo in cui intravedi la luce di una risposta della coscienza e puoi dirgli aspetta un attimo, ho ancora da fare e la piccola banda dell’utopia bambina attraversava quei giorni di incandescenza, di forza che incasina gli argini e li lascia indietro senza guardarli più. Lealtà e scrupolosissima assenza di senso del dovere. Il pomeriggio dell’adolescenza. Tre balzi e si entrava nella vertigine delle scale a chiocciola.
Il quarto ha un padrone, non sa dove andare, comunque ci và. E maggio brillava con le promesse mantenute, squarci di impossibile, pensieri roadiottivi. Salvatore ospitò per scambi culturali italo-francesi, un franco algerino, magrissimo che di mestiere di copertura era uno studente di liceo, ma nella prassi era un ladro e un casseur. Kaddour, ma il nome è fittizio che una settimana fece più casini che altro. Usciva da solo e ritornava con una trentina di orologi, qualche rolex pure dentro. Porcavacca, aveva pure un coltello sempre pronto, ma per autodifesa disse. La piccola banda non poteva denunciare, ma l’utopia bambina non c’era per nulla. Alla fine Kaddour era uno stronzo. Quando smammò Grottaserramanico si era ridotta il pil di una quindicina di milioni di lirette. Un incidente di percorso culturale dicemmo, poi si seppe che in Francia mesi dopo lo accannarono col garage che praticamente era un negozio di high fidelity, tutto pioneer, tutto rubato, ovvio.
E si voleva un ultimo atto eclatante, eravamo annoiati e con le palle storte per i troppo casini del ragazzino francese. Veramente ce l’avevamo nella capoccia da tempo, la pensata inconfondibile, ma è ora di procedere. C’era una targa di bronzo per una faccia di bronzo in corso nazionale, pronunciava “a Umberto II Re d’Italia”, ma cazzo non era quello che stava vicino a Hitler nelle olimpiadi di Berlino 34? Storia non si sapeva molta se non per flash lisergici di un racconto di strada, ma una targa commemorativa alla signoria incosciente e complice non ci piacque mai e si era decisa di asportarla e buttarla nel fossetto dei rovi introvabili. Movente, mezzi e maledetta occasione. Angelo aveva uno scalpello e un piccone e Fabrizio usò la trementina per ammorbidire il calcinaccio, mulinava angiolino come un discobolo e arrivarono mazzate notturne feroci e silenziose e fu fatta, poi in una sacca col motore nell’intricatura dei rovi e starà ancora lì trenta anni dopo piena di piscio di nutria o coperta dalle plastiche di agiografie ipermercatiche. Si poteva andare in ferie cazzo, per riprendere ultimo anno di superiori, cicale nei tigli della città, odori di mentorzata, odore di sangue rappreso nelle risate a crepapelle, ginocchia sempre sbucciate, bavero delle magliette alto, verso quell’aspettativa di supplizio delicato che si faceva prossima e reale, che i rondoni doppiavano gli isolati e alzavi gli occhi blu al cielo simpatico e a casa tutto bene.

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